A piantonare l’ingresso di via Lucio Sestio 10, zona Cinecittà, ci sono 4 signore. La villetta, una vecchia stazione di filobus abbandonata da anni, è stata occupata l’8 marzo. Non sono mancate le mimose, ma qui “la festa delle donne” ha avuto un sapore diverso: italiane, marocchine, peruviane, moldave hanno rivendicato insieme il loro diritto all’abitazione. Mentre per evitare lo sgombero si tratta con la proprietà, nella palazzina 22 nuclei familiari hanno già cominciato a sistemarsi: vecchi materassi, piccoli fornelli elettrici o a gas, qualche tenda. Su uno stendino c’è già ad asciugare il primo bucato. L’immobile è stato pulito a fondo e un architetto ha valutato gli interventi necessari: il tetto deve essere messo in sicurezza e così, almeno per ora, le nuove “inquiline” si sono divise le stanze ai piani inferiori. Mentre curioso nell’accampamento provvisorio, la maggior parte di loro è a lavoro: badanti, cameriere, lavoratrici a progetto. Ida, 65 anni, è nel gruppetto rimasto di guardia. Vive in via Masurio Sabino 31, una delle occupazioni storiche delle lotte per la casa a Roma, ma è comunque venuta “a dare una mano alle ragazze”. Sandra, al suo fianco, è invece arrivata dall’Ecuador 4 mesi fa. Prima di srotolare qui il suo materasso, è passata dalle grotte del Forte Prenestino e da via Marchisio, un altro immobile occupato in zona Cinecittà.
L’emergenza abitativa nella Capitale è alle stelle. L’offerta di case popolari, 85mila appartamenti, è molto lontana dalla domanda. Le famiglie in graduatoria per l’assegnazione sono oltre 32mila. Quanto agli affitti, la liberalizzazione del mercato ha tagliato fuori una larga fascia della popolazione: nel 2007, secondo il Nomisma, il costo medio mensile per l’affitto di una casa di 90 metri quadri a Roma era di 1.523 euro, quasi il doppio rispetto al 2000. Le domande per il Fondo di sostegno all’affitto (vedi box) hanno raggiunto quota 23mila, ma ne vengono soddisfatte meno della metà e spesso il “buono-casa” annuale arriva con forte ritardo. Inoltre per richiedere sostegno al Comune occorre poter vantare un contratto d’affitto registrato, e in città non è così facile trovare un proprietario “onesto” disposto a farlo, pagando le imposte relative. Esclusi dal mercato immobiliare, per molti l’occupazione diventa l’unica alternativa possibile.
A Roma, roccaforte dei “palazzinari”, i movimenti per la casa hanno una forte tradizione: dalle occupazioni per i “baraccati”, veicolate dal Comitato di agitazione borgata (Cab) a fine anni 60, la storia passa attraverso il Comitato di lotta per la casa, nato negli anni 80 dall’area di Autonomia operaia e ancora attivo. Ma sul palco di oggi, dove accanto agli attori storici ci sono addirittura gli estremisti di destra di Casa Pound, i più attivi sono quelli di Action. Nato dalla scelta dei “Disobbedienti” di radicarsi maggiormente sul territorio, Action (www.actiondiritti.net) occupa 11 palazzine della Capitale dove vivono 800-900 famiglie tra immigrati e italiani. Il quartier generale è a San Lorenzo, nell’edificio di via de Lollis, il primo occupato dal movimento. Qui i nuclei sono 60, soprattutto etiopi ed eritrei. Al piano terra è stato ricavato un ufficio, aperto a quanti abbiano bisogno di assistenza legale e mediazione in procedimenti di sfratto. Ogni giorno, a Roma finiscono in tribunale almeno 25 casi di sfratto. Più della metà viene convalidata e resa esecutiva nel giro di pochi mesi. Il 65% sono sfratti per morosità: fino a 10 anni fa, quando è stato liberalizzato il mercato degli affitti, la quota era del 20%. Sono state proprio le lotte contro gli sfratti a rendere “popolare” il movimento di Action. “Quando, 5 anni fa, abbiamo occupato a via de Lollis -racconta Simona Panzino, occupante e attivista- il quartiere ci guardava con diffidenza. Eravamo ‘gli zingari’. Ma grazie alle battaglie con cui abbiamo difeso la casa di oltre 300 famiglie l’atteggiamento è cambiato, e ora ci apprezzano e ci difendono”. Come ha riconosciuto la delibera comunale 110 del 2005, in cui è sancito il diritto all’alloggio, a Roma gli appartamenti sfitti sono circa 150mila, quasi tutti privati. Proprio per questo, nelle trattative con i proprietari degli immobili occupati entra quasi sempre anche l’amministrazione comunale. Il compromesso più frequente è il pagamento di un “canone sociale”, cui il Comune in alcuni casi contribuisce.
Ma è una soluzione che il proprietario accetta solo temporaneamente. “Il piano di edilizia pubblica del 2007 -spiega Nicola Galloro, consigliere delegato del Sindaco per l’emergenza abitativa- prevede la disponibilità di 10mila nuovi alloggi, da ricavare tra nuove costruzioni, acquisti da privati e trasformazioni d’uso di fabbricati, centri commerciali e strutture alberghiere. Il 15% di questi nuovi alloggi sarà destinato a sanare le occupazioni, sistemando gli occupanti e restituendo gli immobili ai legittimi proprietari. Ai movimenti va riconosciuto il merito di richiamare l’attenzione sul problema della casa che, senza la loro pressione costante, sarebbe in fondo all’agenda dell’amministrazione pubblica”.
Un paese impopolare
L’offerta di “case popolari” è sempre più lontana dalla necessità della popolazione. Per il Nomisma, gli alloggi di edilizia residenziale pubblica sarebbero circa
1 milione. Ma secondo altre stime tale patrimonio è ancor più ridotto, aggirandosi intorno alle 800-900mila unità.
La situazione attuale è risultato di due processi. Da un lato la vendita a privati di oltre 100mila alloggi, in forza della legge 560 del 1993 e delle successive “cartolarizzazioni”. Dall’altro la drastica riduzione delle nuove costruzioni, dovuta essenzialmente al collasso del fondo Gescal (Gestione case lavoratori), che con la riforma Dini del 1992 non viene più finanziato dalle buste paga dei lavoratori dipendenti: dalla media di circa 34mila abitazioni costruite per anno durante gli anni 80, si è passati alle 1.900 del 2004. Oggi, un’abitazione su due risulta edificata prima del 1981. La spesa sociale per la casa in Italia è di 5,8 euro all’anno per ciascun abitante. La media europea è di 117 euro (in Francia 208, in Inghilterra 387). L’edilizia sociale italiana non copre neanche un quarto del mercato dell’affitto, contro il 45,5% della Francia, il 66% dell’Inghilterra, il 77% dell’Olanda. Le case popolari rappresentano il 4% del patrimonio abitativo nazionale, e sono in grado di soddisfare solo il 3,4% della domanda annua.
Affitti poco sostenuti
Palliativo per la febbre del mercato immobiliare, il Fondo di sostegno all’affitto (Fsa) esiste dal 1998 per aiutare gli affittuari che si trovano in maggiori difficoltà economiche. Ogni anno, nel mare magnum della Legge finanziaria, il governo stabilisce l’ammontare dei fondi da mettere a disposizione. Dopodiché, un decreto del ministero delle Infrastrutture li ripartisce tra le Regioni, che li ripartiscono tra i Comuni, che a loro volta li ripartiscono tra le famiglie nella graduatoria degli aventi diritto. Per accedere al contributo del Comune, un “buono-casa” annuo, occorre un contratto d’affitto registrato e la certificazione dell’ammontare del canone e della situazione finanziaria della famiglia. Ma se le richieste “di sostegno” sono cresciute seguendo il costo degli affitti, i fondi statali hanno preso la direzione opposta. Nel 2000 per il Fsa venivano stanziati 360 milioni di euro, scesi ai 230 del 2005, risaliti a 310 nel 2006 e arrivati nel 2007 al minimo storico: 210 milioni di euro. Le domande invece, che nel 2000 erano meno di 43mila, sono arrivate a oltre 106mila nel 2006.
L’autorecupero non decolla
Nel 1998, la Regione Lazio approva la prima legge italiana per l’Autorecupero del patrimonio immobiliare pubblico (la 11/1998). Gli interventi vanno realizzati in concorso con cooperative di autorecupero, formate da un numero di soci superiore alle unità immobiliari da assegnare e il cui reddito rientri nei limiti previsti per l’accesso all’edilizia agevolata. Le opere inerenti le parti comuni e strutturali degli edifici sono di competenza dell’ente proprietario, mentre tutte le opere interne agli alloggi spettano alle cooperative. Gli oneri anticipati dai soci per la realizzazione dei lavori, vengono poi detratti dai canoni d’affitto.La prima cooperativa a praticare l’autorecupero in Italia è, già nel 1982, la bolognese “Chi non occupa preoccupa”. Nel 1989 è la volta dei romani di “Vivere 2000”, che occupano, ristrutturano e organizzano un vecchio convento abbandonato a Trastevere. Altri progetti nascono a Milano e Padova.Durante l’ultima legislatura, nel giugno del 2006, in Senato è stato presentato il disegno di legge 621 “Norme per il recupero ad uso abitativo di immobili di proprietà pubblica e privata attraverso cooperative di autorecupero”. Riferimenti normativi regionali esistono anche in Emilia Romagna, Piemonte, Lombardia, Umbria, Toscana e Marche.