Impresa riservata un tempo agli alpinisti più esperti, la scalata dell’Everest si è trasformata negli ultimi anni in un un’avventura per turisti d’alta quota, disposti a pagare fino a 160mila dollari per far parte di una spedizione. Un giro d’affari milionario, in cui a pagare il prezzo più alto sono però gli sherpa, i portatori locali, senza il cui aiuto nessuno sarebbe in grado di affrontare le scalate himalayane. Preparano i percorsi lungo cui avanzeranno le spedizioni, sistemano corde e scale di sicurezza, montano i campi e cucinano i pasti. Per adempiere ai propri compiti, devono andare avanti e indietro lungo i tratti più pericolosi delle scalate. Come la “cascata di ghiaccio del Khumbu”, una parete sul lato nepalese dell’Everest da cui si staccano spesso enormi blocchi congelati. I turisti la attraversano nel più breve tempo possibile grazie al lavoro degli “Icefall doctors”, come vengono chiamati gli sherpa incaricati di fissare corde e scale lungo questo terribile tratto. Un’impresa che può richiedere anche un’intera giornata e che è costata la vita a tanti, troppi, di loro. Come nel 2014, quando la “cascata” ha sepolto 16 portatori in una volta.
Secondo Himalaya Database, l’archivio che raccoglie i dati sulle spedizioni dai primi del Novecento, dei 304 scalatori che hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere la vetta dell’Everest, 119 erano sherpa. Se quest’anno i portatori sono stati la metà delle 4 vittime, nel corso delle ultime stagioni si è registrato un numero record di morti – 17 nel 2014, 14 nel 2015 e 11 nel 2019 – causati anche dall’inesperienza di molti clienti. Ma il sacrificio della vita degli sherpa fa parte della storia delle scalate fin dal principio: in 7 vennero sepolti da una valanga nel corso della leggendaria spedizione di George Mellory del 1922, il primo tentativo della storia. Il tasso di mortalità tra i portatori impiegati nelle scalate dell’Everest dal 2004 a oggi è 12 volte superiore a quello dei soldati che hanno partecipato alla guerra in Iraq tra il 2003 e il 2007. Al mondo non esiste altra attività con un tasso di mortalità così alto (1,2%) tra i suoi lavoratori.
“Sull’Himalaya, i nostri sherpa sono abituati a offrire il proprio ossigeno agli scalatori stranieri in difficoltà. In questo momento, mentre il Covid-19 sta togliendo il respiro al nostro Paese, abbiamo bisogno degli ‘sherpa’ della comunità internazionale”. L’appello lanciato lo scorso maggio dal primo ministro nepalese, Khadga Prasad Sharma Oli, dopo che un’ondata di contagi ha messo in ginocchio prima l’India e poi il Nepal, deve aver lasciato un sorriso amaro sulla bocca di molti portatori locali. Mentre usava la loro immagine per chiedere aiuto nel contrasto al nuovo coronavirus, il premier si rifiutava di fermare la stagione delle scalate himalayane nonostante la pandemia avesse raggiunto anche il campo base dell’Everest, mettendo cosi la vita degli sherpa a ulteriore rischio.
Dopo lo stop del 2020, quest’anno il governo nepalese – a differenza di quello cinese, che ha continuato a tener chiuso il lato tibetano della montagna – ha concesso il numero record di 408 permessi solo per la cima del monte Everest (in totale, oltre 700 permessi per 16 vette himalayane). Per ognuno di questi lo Stato incassa 11mila dollari. Il turismo rappresenta quasi il 10% del prodotto interno lordo nepalese, per un valore che si aggira intorno ai 2milardi di dollari all’anno. Nel 2019, quando vennero rilasciati 381 permessi, soltanto le spedizioni sull’Everest hanno generato entrate per oltre 300milioni di dollari. Facile dunque intuire le ragioni che hanno spinto il governo a ignorare gli allarmi lanciati dal campo base.
Per attrarre i loro facoltosi clienti, le agenzie che gestiscono il business delle scalate offrono ogni lusso immaginabile: “letti king-size” per tutta la durata del viaggio, sedie e tavolini attorno a cui consumare lauti banchetti, ma soprattutto “un consumo illimitato di bombole d’ossigeno”, articolo fondamentale per scongiurare il rischio di edemi cerebrali o polmonari. A doversene caricare il peso sulle spalle fino sopra gli 8mila metri sono sempre i portatori nepalesi. Per raggiungere la vetta, uno scalatore consuma in media 5 bombole, che di solito vengono poi abbandonate lungo il percorso delle spedizioni. L’ondata di Covid-19 le ha rese però indispensabili negli ospedali. Così il ministro nepalese della Salute, Samir Kumar Adhikari, ha chiesto agli sherpa di riportare a valle quelle vuote. Tra aprile e maggio sono arrivate in quota oltre 4mila bombole, circa un quinto di quanto sarebbe servito nelle terapie intensive nepalesi.
Gli sherpa, il “popolo dell’Est” – in tibetano, pa significa “gente”, mentre sher o shar vuol dire “Oriente”- sono il gruppo più numeroso del Solukhumbu, la regione in cui s’innalza l’Everest. Hanno cominciato a stabilirsi qui nel Quindicesimo secolo, dopo aver abbandonato la provincia tibetana di Kham e superato il Nang-pa La, un passo himalayano a 5716 metri d’altezza, in fuga dai mongoli. Un flusso migratorio che ha avuto una seconda ondata intorno alla metà del secolo scorso, quando i cinesi hanno avviato l’occupazione del Tibet. Tenzin Norgay, che insieme allo scalatore neozelandese Edmund Hillary raggiunse la vetta dell’Everest per la prima volta nella storia (1953), li ha resi celebri. Ma la loro fama è dovuta soprattutto alla straordinaria resistenza allo sforzo che hanno in alta quota: sono in grado di arrampicarsi per giorni con carichi che possono superare gli 80 chilogrammi. Secondo quanto hanno dimostrato diversi studiosi (Rasmus Nielsen, Paolo Cerretelli, Norman Heglund), il loro corpo riesce a mantenere un’elevata potenza aerobica senza aumentare la produzione di globuli rossi, riducendo così la possibilità di contrarre edemi.
Ciononostante gli sherpa non sono mai stati interessati alle scalate fin quando non è cominciato il business del turismo d’alta quota. Nella loro lingua non esiste neppure una parola per dire “vetta”. Ogni montagna si chiama con il nome della divinità che si crede la abiti. L’Everest, a esempio, è Sagarmatha, “la dimora della Madre Terra”. Prima di iniziare ogni scalata, i portatori e le guide radunati al campo base recitano la puja, una preghiera con cui chiedono alla montagna di lasciarli passare. Un rituale che negli ultimi anni alcune agenzie sono arrivate a inserire nel loro preziario: la “benedizione” della spedizione costa 300 dollari a cliente.
Oggi l’appellativo “sherpa” è utilizzato per riferirsi a tutti i portatori impiegati sull’Himalaya, anche quando provengono da altre popolazioni di origine tibetana come rai, tamang o gurung. Un mestiere tra i più diffusi in un Paese come il Nepal che offre poche alternative anche a chi possiede un’istruzione. Sotto i 5mila metri, si occupano di rifornire le tante guest-house disseminate lungo i percorsi più turistici. Dai doko – grandi ceste sistemate dietro le spalle e ancorate alla fronte con una lunga fascia – s’innalzano torri di scatoloni carichi di bibite, cioccolata e ogni altro tipo di snack. Fissati ai lati del carico, il fedele khukuri – tipico coltello nepalese dalla lama ricurva – e una radiolina per allietare il cammino. Anche chi può contare solo su sandali di gomma avanza sul ghiaccio con passo più sicuro dei turisti stranieri attrezzati di tutto punto. Quando hanno bisogno di una sosta, i portatori si appoggiano al tokma, un tozzo bastone a forma di T con cui si aiutano anche durante le salite più ripide. Il servizio che offrono è così a buon mercato, che capita spesso di vederli impiegati anche per le strade di Kathmandu. Uomini, donne e ragazzini, pagati in base al peso che sono disposti a caricare. Spesso più di quanto sopporterebbe un mulo.
In alta quota, invece, agli sherpa può capitare di venir impiegati nel recupero cadaveri: alcune agenzie offrono infatti il servizio di riconsegna dei corpi di chi ha perso la vita nella scalata alle rispettive famiglie. Anche lo smaltimento dell’enorme quantità di rifiuti disseminati lungo il sentiero per le vette himalayane è affidato ai portatori. Nel 2014, il governo nepalese ha stabilito che ciascuno scalatore debba riportare con sé a valle 8 chilogrammi di spazzatura, pena la perdita di un deposito di 4mila dollari. In realtà le cauzioni rimangono quasi sempre nelle casse statali, mentre la pulizia è ulteriore compito degli sherpa. Sull’Everest, alcune squadre vengono incaricate ogni anno di recarsi al Campo 2 (6400 metri) e da lì si alterneranno sul Campo 4 (7950 metri), dove trascorrono periodi di 15 giorni raccogliendo i rifiuti. Altra impresa ingrata è lo smaltimento delle 12 tonnellate di escrementi umani – raccolte in botti di plastica blu, attrezzate con una comoda seduta – prodotte in media ogni stagione di scalate.
Da qualche anno gli sherpa hanno cominciato a gestire in proprio il business del turismo di alta quota. Alcune delle nuove stelle dell’alpinismo globale, come i recordman Kami Rita Sherpa (25 volte in vetta all’Everest) e Nirmal Purja (in cima a tutte le montagne sopra gli 8mila metri durante la stagione 2019), dirigono agenzie che fanno concorrenza agli storici operatori occidentali. Se i loro successi hanno il sapore della rivalsa – nell’epopea delle scalate, gli sherpa sono sempre stati relegati al ruolo di mere comparse: la regina Elisabetta, a esempio, nominò cavaliere Edmund Hillary ignorando del tutto Tenzing Norgay – non fanno però alcuna differenza per le centinaia di portatori che ogni nuova primavera sono disposti a rischiare la vita per sfamare le proprie famiglie.