Nonostante la continua serie di incidenti mortali che ha segnato la storia delle scalate dell’Everest, ogni nuova primavera un’orda sempre più numerosa di turisti d’alta quota assedia la montagna più alta del mondo. Secondo il ministero del Turismo nepalese, nel 2017 si sono dirette in vetta 377 spedizioni, composte in gran parte da scalatori senza l’esperienza necessaria ad affrontare l’impresa, ma disposti a pagare fino a 100mila dollari per unirsi a una squadra.
A pagare il prezzo più alto di questo circo sono gli “sherpa”, i portatori locali senza il cui aiuto nessuno sarebbe in grado di affrontare la scalata. Sono loro infatti a preparare i percorsi lungo cui avanzeranno le spedizioni, sistemare corde e scale di sicurezza, montare i campi e cucinare i pasti, caricare sulle spalle cibo e attrezzatura. Compresi tavolini, sedie e ogni altro lusso in grado di compiacere i facoltosi clienti delle agenzie che gestiscono il business delle scalate. Secondo Himalaya Database, l’archivio che raccoglie i dati sulle spedizioni dal 1905, circa 290 scalatori hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere la vetta dell’Everest. Di questi, oltre un terzo (94) erano sherpa. In 7 vennero sepolti da una valanga nel corso della leggendaria spedizione di George Mellory nel 1922, il primo tentativo di raggiungere la cima del mondo.
Oggi, grazie soprattutto a un uso sempre più massiccio di steroidi e bombole d’ossigeno, che aiutano a scongiurare edemi celebrali o polmonari, per i turisti che si avventurano in alta quota il rischio di morire si è molto ridotto. Per gli sherpa, che devono trasportare anche le bombole, è invece aumentato. Il tasso di mortalità tra i portatori che sono stati impiegati nelle scalate dell’Everest dal 2004 a oggi è 12 volte superiore a quello dei soldati che hanno partecipato alla guerra in Iraq tra il 2003 e il 2007. Al mondo non esiste altra industria con un tasso di mortalità così alto (1,2%) tra i suoi lavoratori.
Gli sherpa, il “popolo dell’Est” – in tibetano, pa significa “gente”, mentre sher o shar vuol dire “Oriente”- sono il gruppo più numeroso del Solukhumbu, la regione in cui s’innalza l’Everest. Hanno cominciato a stabilirsi qui nel Quindicesimo secolo, dopo aver abbandonato la provincia tibetana di Kham e superato il Nang-pa La, un passo himalayano a 5716 metri d’altezza, in fuga dai mongoli. Un flusso migratorio che ha avuto una seconda ondata intorno alla metà del secolo scorso, quando i cinesi hanno avviato l’occupazione del Tibet. Tenzin Norgay, che insieme allo scalatore neozelandese Edmund Hillary raggiunse la vetta dell’Everest per la prima volta nella storia (1953), li ha resi celebri. Ma la loro fama è dovuta soprattutto alla straordinaria resistenza allo sforzo che hanno in alta quota: sono in grado di arrampicarsi per giorni con carichi che possono arrivare fino ad 80 chilogrammi. Secondo quanto hanno dimostrato diversi studiosi (Rasmus Nielsen, Paolo Cerretelli, Norman Heglund), il loro corpo riesce a mantenere un’elevata potenza aerobica senza aumentare la produzione di globuli rossi, riducendo così la possibilità di contrarre edemi celebrali o polmonari.
Ciononostante gli sherpa non sono mai stati interessati alle scalate fin quando non è cominciato il business del turismo d’alta quota. Nella loro lingua non esiste neppure una parola per dire “vetta”. Ogni montagna si chiama con il nome della divinità che credono la abiti. L’Everest, a esempio, è Sagarmatha, “la dimora della Madre Terra”. Prima di iniziare ogni scalata, i portatori e le guide radunati al Campo Base recitano la puja, una preghiera con cui chiedono alla montagna di lasciarli passare.
Per adempiere ai loro compiti, gli sherpa devono andare avanti e indietro lungo i tratti più pericolosi della scalata. Come la terribile “cascata di ghiaccio del Khumbu”, una parete da cui si staccano spesso enormi blocchi congelati. I turisti attraversano questo tratto nel più breve tempo possibile. Gli sherpa devono invece passarci una ventina di volte per ogni spedizione. I più coraggiosi tra di loro, incaricati di fissare le corde e le scale – un’operazione che può richiedere anche un’intera giornata – sono soprannominati “Icefall doctors”, i dottori della cascata di ghiaccio. Un’impresa costata la vita a tanti, troppi, di loro.
Nel 2014, a esempio, la “cascata” ha sepolto 16 portatori in una sola volta, causando la più grave tragedia nella storia delle scalate dell’Everest – record tristemente superato l’anno successivo a causa dell’immane terremoto che ha devastato il Nepal, provocando tra l’altro una valanga che si è abbattuta sul Campo Base seppellendo 17 scalatori, tra cui 7 sherpa. Il governo nepalese, che incassa 11mila dollari da ciascun turista solo per il permesso di scalare la montagna, ha offerto 400 dollari come risarcimento per ciascuna vittima. Una cifra che ha scatenato la rabbia dei portatori e innescato uno sciopero generale della categoria, che rivendica migliori condizioni assicurative in caso d’infortunio e un trattamento più equo. Tutte le spedizioni alpinistiche previste per quella stagione sono state annullate. Ma già l’anno successivo il business è ripreso come niente fosse. Le ripetute promesse del governo di una “nuova politica”, che consenta soltanto ad alpinisti esperti di avventurarsi in cima alle montagne, finora sono rimaste incompiute. I permessi continuano a essere concessi in modo indiscriminato e il loro numero ad aumentare (nel 2017 sono stati 1049), facendo così crescere anche il rischio di incidenti mortali.
In alcuni casi i portatori vengono impiegati addirittura nel recupero dei cadaveri. Come per l’indiano Goutam Ghosh, morto nel 2016 nel tentativo di raggiungere la vetta. L’anno successivo, la sua famiglia ha chiesto di riavere il corpo per poterlo cremare. L’operazione di recupero è stata eseguita a quasi 7mila metri d’altitudine ed è durata più di un giorno. Per recuperare il cadavere hanno rischiato la vita 12 sherpa.
Anche lo smaltimento dell’enorme quantità di rifiuti disseminati lungo il sentiero per la vetta è affidato ai portatori locali. Dal 2014 il governo nepalese ha stabilito che ciascun scalatore debba riportare con sé a valle 8 chilogrammi di spazzatura, pena la perdita di un deposito di 4mila dollari. Ma in realtà anche questo compito è svolto dagli sherpa. Il 25 aprile, una squadra composta da 14 uomini sarà inviata al Campo Base dell’Everest con la missione di riportare a valle 11 tonnellate di spazzatura: 8 portatori dovranno raggiungere il Campo 2 (6400 metri) e da lì si alterneranno sul Campo 4 (7950 metri), dove trascorreranno periodi di 15 giorni raccogliendo i rifiuti disseminati dalle spedizioni degli anni passati.
Altra ingrata impresa affidata agli sherpa è lo smaltimento delle 12 tonnellate di escrementi umani prodotte ogni stagione di scalate. Raccolte in botti di plastica blu – inizialmente attrezzate con una comoda seduta – le feci dei turisti vengono scaricate dai portatori nel letto ghiacciato di un lago in secca noto come Gorak Shep. Una pratica che nel tempo ha compromesso una delle 2 sorgenti di acqua potabile adiacenti al sito di smaltimento. Per far fronte al problema, Gary Porter, un ingegnere in pensione appassionato di alta montagna, sta cercando di promuovere il progetto “Mount Everest Biogas”, in collaborazione con le università di Seattle e Kathmandu: grazie a un sistema combinato di digestori anaerobici e pannelli solari – in grado di mantenere anche ad alta quota la temperatura necessaria alla sopravvivenza dei microrganismi responsabili della digestione – il progetto promette di trasformare gli escrementi degli scalatori in metano ed energia elettrica da mettere a disposizione delle moderne guest-house locali.
Nel Solukhumbu, meta favorita dai tanti turisti che ogni anno arrivano in Nepal (nel 2017 sono stati 940mila), si trovano infatti strutture di accoglienza attrezzate secondo i gusti occidentali. La connessione WiFi non manca neppure al Campo Base. Dai doko degli sherpa – grandi ceste sistemate dietro le spalle e ancorate alla fronte con una lunga fascia – s’innalzano torri di scatoloni carichi di bibite gasate, cioccolata e ogni altro tipo di snack. Fissati ai lati del carico, il fedele khukuri – tipico coltello nepalese dalla lama ricurva – e una radiolina per allietare il cammino. Anche chi può contare solo su sandali di gomma avanza sul ghiaccio con passo più sicuro degli scalatori stranieri attrezzati di tutto punto. Quando hanno bisogno di una sosta, i portatori si appoggiano al tokma, un tozzo bastone a forma di T con cui si aiutano anche durante le salite più ripide.
Oggi l’appellativo “sherpa” è utilizzato per riferirsi a tutti i portatori impiegati sull’Himalaya, anche quando provengono da altre popolazioni di origine tibetana come rai, tamang o gurung. Un mestiere tra i più diffusi in un Paese come il Nepal che offre poche alternative anche a chi possiede un’istruzione. Trasportano tutto ciò che serve ad alimentare il turismo himalayano, settore principale dell’economia nazionale (nel 2017 valeva 658milioni di dollari). Uomini, donne e ragazzini, pagati in base al peso che sono disposti a caricare, spesso più di quanto sopporterebbe un mulo. Il servizio che offrono è così a buon mercato – 5 dollari al giorno per un load da 20 kg – che spesso capita di vederli impiegati anche per le strade di Kathmandu.
Sopra i 5mila metri però il trasporto di un load vale 100 dollari al giorno, che diventano 200 per chi è disposto a spingersi oltre gli 8mila metri del “Colle Sud” dell’Everest. Cifre che fanno gola a molti in un Paese dove il Pil pro capite non supera i 1000 dollari all’anno. Chi vanta già un’esperienza tale da aspirare al ruolo di guida, sa di poter guadagnare fino a 5mila dollari per accompagnare una spedizione in cima all’Everest. Denaro sufficiente a comprare una casa nel proprio villaggio. Una prospettiva tale da assicurare ogni anno un numero più che sufficiente di sherpa disposti a rischiare la propria vita. Primavera dopo primavera.