Scordatevi bestie feroci e domatori, gabbie pulciose e carnefici armati di frusta. Otto “circhi sociali” provenienti da sette diversi paesi africani -Sudafrica, Madagascar, Egitto, Kenya, Senegal, Zambia e due compagini etiopi- si sono riuniti ad Addis Abeba per il primo festival africano di arti circensi. Per tre giorni (27, 28 e 29 novembre) sul palco dell’Oromia Cultural Center si sono esibiti acrobati, clown, giocolieri e musicisti. Terminati gli spettacoli, il festival è proseguito con altri tre giorni di workshop, durante i quali gli artisti delle differenti compagini hanno avuto modo di condividere le proprie esperienze e apprendere nuove tecniche circensi, mentre i direttori si confrontavano e discutevano di strategie per fare prosperare il giovane circo africano. Ne ho parlato con Giorga Giunta, coordinatrice del Fekat Circus, il circo sociale che ha organizzato e promosso il festival.
Cos’è il Fekat Circus?
“Il Fekat – in amarico significa “fiorente”, perché il circo fa fiorire i bambini e chi altro vi partecipa – nasce nel 2004 su iniziativa di un gruppo di ragazzi etiopi cresciuti nello stesso quartiere popolare di Addis. Da principio si allenavano all’interno del Circo Etiopia ma in breve hanno deciso di mettere in piedi un circo tutto loro. Ci sono riusciti anche grazie al Ciai, una ong italiana che fa sostegno all’infanzia e che gli ha messo a disposizione una palestra, dove poter dare lezioni ai bambini del quartiere e allenarsi. Quando sono arrivata, nel 2005, il loro modello era formare artisti che andassero poi a lavorare all’estero. Gli ho proposto di fare qualcosa nel proprio Paese, idea che gli è subito piaciuta. Per cominciare siamo andati in Kenya a visitare la fondazione Sarakasi, un circo (tra quelli invitati al festival, ndr) che da oltre 30 anni lavora con i ragazzi delle baraccopoli di Nairobi. Gli allenatori di Sarakasi tengono lezioni settimanali gratuite e quando trovano ragazzi promettenti li portano nella sede centrale, dove vengono formati da professionisti. Realizzano inoltre tante altre attività sociali: da loro abbiamo preso ispirazione per il nostro Smile Project che portiamo in giro per ospedali, orfanotrofi e carceri di Addis. Oggi il Fekat ha 31 dipendenti e un budget di 100mila euro l’anno che per il 70% proviene da donazioni. Il resto arriva dalla scuola di circo per bambini, dagli spettacoli a pagamento e dalle feste di compleanno che organizziamo”.
Quanto è diffuso e che radici ha il circo africano?
“Il circo propriamente detto non esiste in Africa. Come vuole dimostrare il logo che abbiamo scelto per questo primo festival africano – una donna di fronte a un baobab che porta un vaso in equilibrio sulla testa – molte competenze circensi sono comuni in Africa, ma qui nessuno le chiama “circo”. L’arte circense come la intendiamo in Europa ha una storia piuttosto recente. In Etiopia è stata importata da un canadese negli anni Ottanta. Ma qui la giocoleria, gli esercizi aerei e acrobatici sono considerati ancora un’attività sportiva, cui non viene riconosciuta alcuna componente artistica. Grazie ai centri sportivi istituiti e promossi dal Derg, il circo etiope si è diffuso a macchia d’olio in ogni angolo del Paese: oggi, oltre alle tante realtà abebine, ci sono compagini circensi strutturate e di buon livello nel Tigrai, a Jimma, Bahir Dar, Dire Dawa e in tante altre città. Lo spettacolo che offrono in genere però è molto standardizzato, proprio a causa della diffusione durante il ventennio del “terrore rosso”. Negli ultimi anni, grazie all’influenza di esperienze straniere che arrivano in Etiopia soprattutto tramite Youtube, le cose stanno cambiando e la componente artistica del circo contemporaneo, più vicina al teatro e alla danza, comincia a prendere piede anche in Africa. Gran parte delle compagini africane continua però a essere organizzata con l’idea di andare a lavorare all’estero, dove il circo è una realtà economica già ben strutturata. Perché diventi sostenibile anche da un punto di vista finanziario, il circo africano deve poter contare su un pubblico pagante e numeroso, obiettivo ancora lontano”.
A che tipo di pubblico si rivolgono i circhi africani?
“In Etiopia, il pubblico pagante è fatto quasi solo da stranieri. Una dinamica comune a quasi tutti i circhi che hanno partecipato al festival, come è emerso dagli incontri tenuti tra i direttori. Fatta eccezione per il Circus Zambia, che può contare su un ottimo pubblico locale e ricava dagli spettacoli buona parte del suo budget annuale, il resto dei circhi africani continua a dipendere troppo dalle donazioni. Le esibizioni a pagamento vengono fatte per organizzazioni umanitarie e ambasciate, oppure per grandi corporation private nel corso di eventi promozionali. Il pubblico locale, anche quello più facoltoso, continua a snobbare gli spettacoli di circo, preferendo affollare i centri commerciali coi i loro cinema multisala e le sale videogiochi. Una dinamica che stiamo provando a superare: per stare in piedi da sé, il circo africano deve trasformarsi in un’impresa sociale”.
Perché avete pensato di organizzare un festival di circo africano?
“Volevamo soprattutto favorire la creazione di un’identità del circo africano, creare maggiore consapevolezza di quanto circo già esiste in Africa e di come questo possa divenire un motore di sviluppo umano, culturale, sociale ed economico. Non è stato facile trovare realtà circensi artisticamente valide, anche perché per partecipare al festival abbiamo messo come condizione che i circhi avessero in piedi attività sociali all’interno del proprio Paese. Tutti i circhi scelti sono impegnati con giovani cresciuti in realtà marginali e si propongono di essere per loro uno strumento di emancipazione. In tal senso il circo ha grandi potenzialità: i giochi e gli esercizi con cui si comincia contribuiscono a rafforzare l’identità e la personalità di chi li pratica – spesso ragazzi che non frequentano neppure la scuola – mentre più avanti l’attività circense può trasformarsi in un’opportunità lavorativa per chi altrimenti sarebbe escluso dal mercato del lavoro. Il festival vuole contribuire a rafforzare questi gruppi così che possano sviluppare maggiormente il circo nel proprio Paese. Ci auguriamo che i governi africani diano più spazio e appoggio allo sviluppo dell’arte circense: oggi a eccezione del Circus Debre Berhan, che può contare su alcuni fondi messi a disposizione dal proprio kebele (municipio), nessuno dei circhi che hanno partecipato al festival riceve aiuto finanziario o di altro tipo dallo Stato. Un peccato, in quanto il circo potrebbe diventare un’enorme industria culturale anche in Africa: considerando non solo l’aspetto “sportivo” della pratica circense, ma anche le forme artistiche al suo interno – costumi, trucco, danza, teatro – lo sviluppo del circo favorirebbe tante altre professioni. Proprio per questo con gli altri direttori presenti al festival abbiamo deciso di costituire la African Circus Alliance – il Fekat si è impegnato a richiederne l’identità legale di associazione africana presso l’African Union – una rete che avrà l’obiettivo di sostenere i propri membri e promuovere il circo africano presso governi e istituzioni internazionali”.