Abbarbicata alla roccia, Dona Marta domina il quartiere di Botafogo. Come tutte le altre favelas sorte sulle colline delle zone più ricche di Rio de Janeiro, l’accozzaglia di baracche affaccia su un panorama mozzafiato. Rivolto verso la Baia de Botafogo, lo sguardo dei diseredati della Cidade maravilhosa s’imbatte nel celeberrimo Pão de Azúcar. Se gli occhi s’arrampicano invece tra i vicoli della baraccopoli, in cima al Corcovado incontrano le braccia spalancate del Cristo, che lanciano la loro benedizione sulla Baia de Guanabara. La linea di frontiera tra la favela e la parte ricca del quartiere è marcata dal piantone continuo della polizia militare, posizionato proprio dove i ciottoli dei vicoli annegano nell’asfalto delle strade cittadine, e il torrente delle fogne a cielo aperto precipita tra le grate di un tombino. Lungo rua Marechal Francisco de Moura, la via d’accesso al labirinto dei vicoli di Dona Marta, è un via vai continuo di gente. I rampolli della “Rio bene”, in cerca di sballo, fanno rotta verso la boca, dove gruppi di ragazzini armati come soldati vendono polveri e pasticche per tutti i gusti. Nel verso opposto, gli uomini e le donne abbandonano le loro baracche per andare a prestar servizio come camerieri e badanti nelle ricche case di Lagoa, o come commessi e cuochi nelle boutique e nei ristoranti alla moda di Ipanema. A differenza della maggior parte delle metropoli sudamericane, a Rio de Janeiro ricchi e poveri vivono fianco a fianco, in un flusso continuo che non riesce confonderli ma che li confronta ogni giorno.
Tutto questo però, nel video presentato al Comitato olimpico internazionale (Cio) dal governo carioca per la candidatura ai Giochi olimpici del 2016, non c’era. Le “vergogne” della Cidade maravilhosa sono state fatte sparite. Nessuna traccia delle favelas, né tanto meno delle comunità marginali che le popolano. Operazione complessa, dato che in tutta la città si contano circa un migliaio di baraccopoli, e che alcune di queste tappezzano il cuore stesso della Rio ricca. I prestigiatori del video però sono riusciti a far scomparire perfino la storica Mangueira, innalzata alle spalle dello stadio Maracaná, uno degli impianti principali che ospiteranno le competizioni sportive.
L’assegnazione a Rio de Janeiro delle Olimpiadi 2016, che per la prima volta nella storia porta i Giochi in Sudamerica, è l’ennesimo riconoscimento alla nuova potenza economica del Brasile, paese che ospiterà anche i Campionati mondiali di calcio del 2014. Quando nel 2001 gli economisti della Goldman Sachs, una delle più affermate banche d’affari del mondo, hanno incluso il Brasile tra le potenze emergenti destinate a dominare l’economia mondiale (formando il cosiddetto “Bric”, insieme a Russia, India e Cina) gli scettici erano in molti. Un basso tasso di crescita, la cronica instabilità politica e la vulnerabilità mostrata di fronte a ogni crisi finanziaria mondiale, sembravano problemi destinati a connotare ancora a lungo l’economia brasiliana. Oggi sappiamo che lo scetticismo di allora era fuori luogo: il Brasile è stato tra gli ultimi paesi a essere colpiti dalla crisi internazionale, e tra i primi a uscirne. Secondo molti analisti economici, l’attuale tasso di crescita annuale del 5 per cento è destinato a un’ulteriore impennata nei prossimi anni, anche grazie ai ricchi giacimenti di petrolio off-shore pronti a essere sfruttati al largo delle coste paulista e carioca. Entro il 2014 il paese potrebbe diventare la quinta potenza economica del mondo, superando Gran Bretagna e Francia. Rimane però l’annoso problema di una fortissima disuguaglianza sociale: nonostante i notevoli progressi economici, il 22% della popolazione brasiliana (oltre 40 milioni di persone) vive in condizioni di estrema povertà e disagio. In Brasile 64 case su 100 non sono ancora allacciate alla rete elettrica e a quella fognaria, mentre quasi il 37% dei giovani tra i 18 e i 24 anni non finisce la scuola superiore. Dati che raccontano l’altra faccia della medaglia, quella che in occasione della canditura ai Giochi olimpici è stata abilmente nascosta.
Nei piani del governatore Sergio Cabral, l’illusione deve ripetersi anche dal vivo. Sulle vie di maggior scorrimento come Avenida Brasil, nei tratti in cui le favelas sono a lato della strada, l’amministrazione comunale sta facendo installare una serie di pannelli insonorizzanti. Ufficialmente disposti per proteggere gli abitanti delle baraccopoli dal rumore del traffico, l’effetto più evidente dei pannelli sarà quello di nascondere la miseria di Rio allo sguardo fugace di chi è solo di passaggio. Ma nascondere non basta. La miseria va soffocata, perché non porti il suo alito fetente in faccia ai turisti, non allunghi le sue mani affamate nelle loro tasche. A chi ha provato a far obiezioni alla candidatura carioca tirando in ballo il tema “sicurezza”, Cabral ha promesso uomini e mezzi: 3milioni di euro sono già stati stanziati sotto la voce “Olimpiadi sicure”.
Torna alla mente il Pandemonio, come venne ribattezzata la serie massiccia d’invasioni nelle favelas che la polizia realizzò nelle settimane precedenti i Giochi Panamericani (Pan) del 2007. Tra le operazioni ufficiali di quel periodo è rimasta alla memoria soprattutto quella nel Complexo do Alemão, uno dei luoghi più poveri della città: 1300 poliziotti militari, supportati da blindati ed elicotteri, invasero il territorio seminando 30 morti e 60 feriti tra i civili. In alcuni casi si parlò anche di “esecuzioni arbitrarie”. Ma all’epoca dei Pan, la maggior parte delle invasioni non furono operazioni ufficiali. Quel periodo infatti è divenuto famoso soprattutto per l’esplosione del fenomeno delle milicias: gruppi di paramilitari composti in gran parte da poliziotti, pompieri e agenti penitenziari, quasi tutti ancora in servizio, che si uniscono per sottrarre ai trafficanti il controllo delle favelas. Conquistato il territorio, le milicias cominciano a riscuotere dagli abitanti una tassa per la protezione, passando poi a imporre il “pizzo” su ogni genere di attività commerciale che ha luogo nella favela: gas, elettricità, trasporti informali, compravendita e affitto degli immobili, spacci alimentari e piccole botteghe artigiane. Quasi tutti i gruppi sono legati a un deputato statale, cui viene assicurato il voto dell’intera comunità occupata in cambio d’appoggio e protezione. Un sistema che in pochi anni è riuscito ad assicurarsi il controllo di oltre 170 tra le comunità più marginali di Rio, garantendo alle autorità corrotte della città introiti superiori a quelli tradizionalmente assicurati dalle “mazzette” pagate dai trafficanti.
Il rapido dilagare del fenomeno e il sospetto coinvolgimento di figure di primo piano tra politici e forze dell’ordine, hanno attirato però l’attenzione della società civile e della stampa. Raquel Willadino Braga, coordinatrice del Nucleo di violenza e diritti umani di Observatório de favelas, la ong più impegnata nelle baraccopoli di Rio, denuncia che “nelle favelas controllate dalle milicias la presenza delle organizzazioni sociali non è ammessa. Per noi è più semplice lavorare nei territori controllati dai trafficanti”. Oltre ad affollare la cronaca locale, le imprese delle milicias si sono poi guadagnate le pagine di molti giornali stranieri. Tanto rumore ha costretto il governo carioca a istituire una Commissione parlamentare d’inchiesta (Cpi), la cui relazione finale, diffusa a novembre 2008, ha indiziato 226 persone tra politici, poliziotti e pompieri in servizio.
Il lavoro della Cpi e gli arresti di alcuni dei protagonisti del fenomeno, non sono bastati però a spazzar via le milicias, che al contrario secondo un studio recente dell’Università statale di Rio de Janeiro (Uerj) continuano a prosperare ed espandersi. Ma sono comunque serviti a costringere i politici locali a condannare un sistema definito in principio come il “male minore” per le favelas. Nelle zone più ricche e turistiche della città, il governo carioca è passato così a promuovere un modello d’intervento basato sull’occupazione da parte delle Unidade de policia pacificadora (Upp), nuclei speciali della polizia deputati a garantire la sicurezza del territorio accompagnando gli interventi sociali e sulle infrastrutture previsti dal potere pubblico. Dona Marta, storica roccaforte dei trafficanti appartenenti al Comando vermelho, è stata la prima favela a essere sottoposta all’esperimento. Il Batalhao de operacoes de polícia especializada (Bope), unità della polizia militare addestrata alla guerra nelle baraccopoli, s’è occupato di far fuori i trafficanti. Una volta “liberato”, il territorio su cui sorge Dona Marta è stato circondato da un muro e addobbato con centinaia di telecamere. Alcune baracche sono state abbattute e alle famiglie è stata promessa una nuova sistemazione. Se la comunità può usufruire gratuitamente di una rete internet senza filo, l’Upp, che da oltre un anno occupa il territorio, ha però bandito lo svolgersi dei tradizionali baile funky, la manifestazione di cultura popolare più sentita all’interno delle favelas.
Il laboratorio di Dona Marta verrà presto riproposto in altre comunità. In cantiere c’è la costruzione di 11 chilometri di mura attorno a 19 baraccopoli. A tale scopo sono stati stanziati 40milioni di reais (circa 15milioni di euro), che comprendono anche l’abbattimento e la sostituzione di 550 abitazioni. Nelle dichiarazioni del governo, le mura vengono allestite “per proteggere la natura, per frenare l’espansione delle comunità evitando così che attingano ancora alle risorse forestali”. Ma se risulta singolare la scelta di Dona Marta, una comunità che negli ultimi 10 anni non ha registrato alcuna espansione territoriale, in molti fanno presente che le favelas rappresentano meno di un terzo delle costruzioni sopra i 100 metri di altitudine a ridosso di foreste o altre aree naturali di pregio. Nelle aree occupate dalla classe carioca medio-alta, circa il 70% del totale, non è però prevista la costruzione di nessun muro. Intanto, come spiega il comandante generale della polizia militare, Mario Sergio Duarte, la Upp continua nell’impresa di “formare una cintura di sicurezza turistica intorno alla zona sud”. Dopo Dona Marta, sono state occupate le favelas di Batam, Mangueira, Cidade de Deus, Pavão e Cantagallo. Ma per “chiudere la cintura” all’appello mancano ancora territori importanti come quello della Rocinha, la baraccopoli costruita sulla splendida roccia Dois irmaos, affianco alla spiaggia e all’esclusivo quartiere di Ipanema.
Le prime favelas – il nome deriva da un’erba infestante – risalgono all’abolizione della schiavitù, alla fine del secolo XIX. Nella speranza di essere accarezzati dalla ricchezza delle grandi città, i diseredati brasiliani – schiavi liberati, soldati senza più occupazione, contadini in fuga dalla siccità e dalla miseria delle campagne – hanno dato vita a queste enormi baraccopoli. Gran parte degli abitanti è costretta a una lotta per la sopravvivenza che non conosce soste, alimentata dalla speranza di poter offrire ai propri figli un futuro migliore. Un’esistenza condotta in un contesto di estrema violenza, vittime quotidiane della guerra per il controllo del territorio che oppone bande rivali di trafficanti, poliziotti corrotti e non. Così mentre gli abitanti di Copacabana per 3 giorni consecutivi festeggiavano a ritmo di samba le Olimpiadi di domani, quelli della favela Morro dos Macacos già cominciavano a fare i conti con l’altra faccia della medaglia: a pochi giorni dall’annuncio dei Giochi, fronteggiando un’invasione, i trafficanti locali hanno abbattuto un elicottero della polizia con un colpo di cannone antiaereo. Il giorno seguente la polizia si è lanciata in un’altra operazione per cercare l’arma. Quando la giostra della violenza si è fermata, a terra erano rimasti i corpi di 63 civili.
Rio de Janeiro è la città con il più alto tasso di omicidi del mondo. Secondo le autorità statali, escludendo le uccisioni “in seguito a stupro” o “in seguito a tumulti”, nel 2008 sono stati oltre 5mila. Nella metà dei casi le morti sono legate al traffico di droga. La polizia di Rio, dal canto suo, uccide più di ogni altra: sempre nel 2008 sono state ammazzate 1188 persone che “resistevano all’arresto” (nello stesso periodo la polizia degli Stati Uniti ha ucciso 371 persone). Come denunciato da Amnesty International nel rapporto “They come in shooting: policing socially excluded communities in Brazil”, per ogni 7 omicidi uno è commesso dalla polizia. Ignacio Cano, sociologo del Laboratorio di studi sulla violenza dell’Università statale di Rio de Janeiro (Uerj), sostiene che in molti casi si tratti di vere e proprie esecuzioni: secondo le sue ricerche, il 65% delle persone assassinate dalla polizia ha ricevuto almeno un colpo alle spalle. Negli ultimi 3 anni, gli scontri tra fazioni rivali hanno inoltre causato 739 balas perditas, proiettili vaganti che colpiscono gli innocenti malcapitati sul terreno di guerra, che hanno significato la morte per 56 persone. Ma le statistiche ufficiali non sono in grado di ricostruire il quadro completo: secondo la polizia federale tra il 1993 e il 2007 ci sono stati oltre 25mila casi di desaparecidos. Quella che ogni giorno imperversa per Rio è una guerra non ufficiale, di quelle definite “a bassa intensità”, con un bollettino peggiore di quello della Striscia di gaza o di Baghdad. Fino a qualche tempo fa le autorità di Rio non pubblicavano statistiche sulla violenza. Così, nel febbraio 2007, il disegnatore André Dahmer attivò Rio body count, un bollettino ispirato da iraqbodycount.org, che rimase in rete fino a quando il governo non decise di occuparsi a sua volta della questione. Anche Fernando Gabeira, candidato ecologista alle elezioni 2008, si è dedicato al tema, elaborando la “mappa della violenza di Rio” (http://gabeira.com/gabeira43/?p=158) dove ogni comunità è contrassegnata con il colore della fazione che l’occupa: rossa per il Comando vermelho, verde per il Terçeiro Comando, gialla per Amigos dos Amigos e blu – stesso colore della divisa della polizia militare – per le milicias.
Per aver partecipato a un baile funky con una telecamera nascosta, Tim Lopez, famoso reporter de O Globo, venne fatto a pezzi con una spada da samurai e poi bruciato. Era il 2002, e da allora pochissimi giornalisti brasiliani corrono ancora il rischio d’entrare in una favela. A maggio 2008, ci prova una squadra del quotidiano O Dia, che affitta in incognito una baracca a Batam, un territorio controllato dalle milicias. I giornalisti cominciano a raccogliere materiale ma vengono presto scoperti. Rinchiusi in uno dei locali usati dai paramilitari come quartier generale, vengono malmenati e torturati per ore: scosse elettriche, soffocamento con sacchetti di plastica, obbligo di sottoporsi alla roulette russa. In un intervallo tra le torture, i malcapitati avvertono speranzosi le sirene della polizia che s’avvicinano. Ma quando l’auto raggiunge il locale dove sono tenuti prigionieri, gli agenti si dimostrano solidali ai torturatori. Dopo aver distrutto ogni appunto e ritratto collezionato dai giornalisti, i componenti della milicia decidono di rilasciare la squadra di O Dia. Il fatto guadagna presto le cronache internazionali, compresa quella del New York Times, e il governo carioca è costretto a istituire finalmente una Commissione parlamentare d’inchiesta (Cpi) che faccia luce sul fenomeno delle milicias. Presieduta dal deputato statale Marcelo Freixo, la Cpi indaga per mesi sui rapporti tra l’amministrazione pubblica e i paramilitari carioca. Il lavoro degli investigatori è accompagnato da minacce continue, mentre gli abitanti che decidono di collaborare all’inchiesta in molti casi vengono torturati o ammazzati. A novembre 2008, la Cpi diffonde la sua relazione finale: 226 persone tra politici, poliziotti e pompieri in servizio vengono indiziate per legami con le milicias. 6 mesi più tardi, durante un’operazione contro un gruppo di paramilitari, la polizia trova alcune lettere in cui il capo della milicia di Rio das Pedras, un ex sergente della polizia militare, chiede l’appoggio di un altro gruppo di paramilitari per assassinare Freixo e il suo assistente Vinicius George. Da allora i 2 sono costretti a vivere sotto scorta.