«Se scendesse un inviato dal cielo e mi garantisse che la mia morte sarà utile a rafforzare la nostra lotta, ne varrebbe la pena. Ma l’esperienza ci insegna il contrario. Quindi voglio vivere. Cerimonie pubbliche e funerali non salveranno l’Amazzonia». Rilette a vent’anni dal suo assassinio, le parole di Chico Mendes, martire della lotta per la difesa del popolo e della ricchezza della foresta amazzonica, hanno il sapore amaro della premonizione. L’Amazzonia si è appena lasciata alle spalle l’ennesima «stagione del fuoco», la più dura degli ultimi anni. Secondo le rilevazioni satellitari dell’Istituto nazionale di ricerche spaziali (www.inpe.br), organo del ministero brasiliano di Scienza e tecnologia, il ritmo di crescita del disboscamento è più che raddoppiato nell’ultimo anno. Soltanto ad agosto sono stati dati alle fiamme 756 chilometri quadrati di foresta, contro i 230 dell’agosto 2007. Gli incendi, appiccati dall’uomo per fare spazio alle coltivazioni e agli allevamenti, hanno già cancellato per sempre quasi 800mila chilometri quadrati di foresta vergine (oltre due volte e mezzo l’Italia).
Quella amazzonica è la foresta pluviale più grande del mondo, culla di una biodiversità impareggiabile. Un’area di oltre cinque milioni e mezzo di chilometri quadrati, che si estende dalla cordigliera delle Ande, spina dorsale dell’America del sud, fino a sfiorare le acque dell’Atlantico. Osservata dal cielo, l’Amazzonia appare come un’immensa tela verde, su cui un pennello divino si è librato nel tratto tortuoso di migliaia di fiumi, mentre le unghie dell’uomo hanno lasciato le ferite indelebili delle aree disboscate.
La deforestazione, che ogni minuto cancella per sempre un’area grande come sei campi di calcio ed è responsabile dei tre quarti delle emissioni brasiliane di gas serra, sembra sfuggire al controllo di qualunque strategia politica. Le autorità del Brasile, Paese in cui si concentra il 65% della foresta, nel 2004 hanno introdotto un ambizioso piano d’azione per la salvaguardia della regione amazzonica (cfr http://www.mma.gov.br/ppcdam). Ma, come denunciato dal rapporto di Greenpeace The lion wakes up, a quattro anni dalla sua introduzione i risultati ottenuti sono davvero scarsi. Al contrario, le pressioni esercitate dalle lobby agro-industriali hanno costretto il ministro dell’Ambiente alle dimissioni, lo scorso maggio. Lasciando il suo incarico, Marina Silva, vecchia compagna di lotta ed erede di Chico Mendes, ha denunciato «le difficoltà incontrate nell’implementare l’agenda federale di protezione ambientale». Il presidente Lula, che ha incassato le dimissioni senza grandi resistenze, sembra essere ormai impotente di fronte agli interessi di chi vede nella tutela della natura un ostacolo al «progresso» brasiliano.
A conti fatti l’unico «soggetto» ad avere in mano le redini della situazione è il mercato. Il disboscamento, infatti, segue di pari passo l’andamento dei prezzi della soia e della carne di manzo – il Brasile può vantare il primato mondiale per entrambi i prodotti – o della canna da zucchero destinata alla produzione di biodiesel (etanolo). Si spiega così l’impennata che la deforestazione ha fatto registrare nell’ultimo anno, dopo che nel triennio 2004-2007 l’area disboscata annualmente era diminuita proprio grazie ai bassi prezzi delle materie prime sopra citate.
Chico Mendes, invece, era convinto che la via per lo sviluppo delle regioni amazzoniche non dovesse obbligatoriamente passare per il disboscamento.
L’alternativa proposta negli anni Ottanta dal movimento dei seringueiros, i raccoglitori del lattice di cui Chico è stato voce e portabandiera, era il modello economico delle popolazioni tradizionali: l’estrazione dei prodotti nativi della foresta (da qui il nome di modello extractivista), integrata da un’agricoltura e un allevamento di sussistenza praticati su piccolissima scala. La gomma naturale (ricavata dal lattice), le castanhas (noci brasiliane), la sconfinata varietà di frutta e piante medicinali, il miele, gli oli naturali e tutti gli altri prodotti «tipici», se opportunamente valorizzati possono avere enormi potenzialità economiche, garantendo allo stesso tempo la sostenibilità dell’attività produttiva.
Al contrario, seppur redditizio nel breve periodo, il modello del latifondo e delle fazendas (i grandi allevamenti di bestiame) ha un bilancio disastroso a medio e lungo termine. Il suolo amazzonico è particolarmente fragile e l’intensa copertura forestale ne garantisce la sopravvivenza: filtrando i raggi solari protegge la terra dall’erosione, mentre la vegetazione che si decompone al suolo assicura la fertilità necessaria ad alimentare la nuova flora, in un ciclo continuo di vita e morte. Se, a rotazione, si danno alle fiamme piccole aree per impiantare un’agricoltura o un allevamento di sussistenza, la foresta è in grado di riallacciarsi al suo ciclo naturale. Ma se invece vengono abbattute e bruciate aree di centinaia d’ettari per tentare l’agricoltura su vasta scala, il suolo in breve diventa sterile e lascia crescere soltanto una macchia fatta di palme rade e pochi arbusti bassi. Se poi sulle aree disboscate s’impiantano le grandi fazendas, mettendo le vacche al pascolo, allora in pochi anni si ottiene il deserto.
Grazie agli empates, le occupazioni collettive di aree della foresta per impedirne il disboscamento, e all’eco internazionale raggiunta dalle loro rivendicazioni, i seringueiros raccolti intorno a Mendes conquistarono il diritto alla sopravvivenza: nel 1988, anno in cui Chico venne ammazzato, il governo brasiliano istituì le prime «riserve estrattive» (Resex). In queste aree protette, oggi più di 50, la preservazione dell’ecosistema è affidata alle popolazioni tradizionali e al loro modello economico. La più vasta, oltre un milione di ettari che si estendono nello Stato dell’Acre tra i municipi di Xapuri, Brasiléia e Assis Brasil, porta proprio il nome del sindacalista.
Ma il disboscamento sta attaccando anche la Resex Chico Mendes, «santuario» dell’Amazzonia e vetrina del modello extractivista. Approfittando di un monitoraggio e di una fiscalizzazione tutt’altro che rigorosi, tanti tra i supposti «custodi» della riserva sforano i limiti consentiti allo sfruttamento del legname e agli spazi dedicati alla coltivazione o al pascolo.
Paradossalmente, molti di quei seringueiros che con Chico avevano difeso dall’avanzata dei pascoli l’area di foresta dove è poi stata istituita la riserva si sono ora trasformati in piccoli fazendeiros o commercianti di legname. «Quei pochi che investono nell’extractivismo, in colture alternative come l’açai o la pupunha, ne sono fortemente penalizzati. Per questi prodotti ancora non esiste un mercato sicuro, mentre l’allevamento e la vendita di legname pregiato continuano a offrire garanzie di guadagno», spiega Boca, coordinatore del Consiglio nazionale dei seringueiros (Cns), l’organo creato da Mendes nel 1985 per dare alle rivendicazioni della sua gente un respiro nazionale e internazionale.
Dati alla mano, in Acre come nel resto dell’Amazzonia l’attività estrattiva è in crisi profonda. L’estrazione della gomma, un tempo «oro bianco» della foresta, ha cominciato a collassare già dagli anni Novanta: oggi se ne producono meno di duemila tonnellate, circa un quinto della produzione degli anni Settanta. L’altro prodotto tradizionale, le castanhas, dopo aver galleggiato nell’ultimo decennio sulla media di 5mila tonnellate all’anno, è da poco tornato ai livelli del 1970 (circa 12mila tonnellate). Piante medicinali, oli naturali, miele e frutta sono ancora produzioni marginali. Al contrario lo sfruttamento del legno e l’allevamento di bovini avanzano inarrestabili: le vacche, che nel 1970 erano 90mila, hanno superato i 2milioni di capi; mentre i 53mila metri cubi di legna che venivano estratti nel 1970, sono diventati oltre un milione. «Il governo – denuncia Dioniso Barbosa de Aquino, detto Dau, leader storico del sindacato dei raccoglitori, di cui è stato anche presidente – aiuta a costruire le case, migliora i ramal (le strade della riserva, ndr), favorisce l’accesso ad acqua ed elettricità, ma non sta lavorando sul mercato dei prodotti naturali della foresta, sulla loro valorizzazione. Una politica assistenzialista che non favorisce l’indipendenza dei seringueiros, né tantomeno la tutela della foresta».
Francisco Alves Mendes Filho, detto «Chico», nasce il 15 dicembre 1944 in Acre, nel cuore della foresta amazzonica. Prima di trasferirsi nel villaggio di Xapuri, dove comincerà la sua carriera di sindacalista e politico, lavora per 20 anni come seringueiro, imparando a conoscere la ricchezza e i segreti dell’Amazzonia. Già nel 1968, in piena dittatura militare, inizia una lotta solitaria per l’emancipazione della sua gente e per difendere la foresta dall’avanzata dei pascoli. Collabora alla fondazione dei primi sindacati rurali dell’Amazzonia e nel 1977 viene scelto come consigliere comunale a Xapuri: le sue denuncie gli costano la completa emarginazione politica. Nel 1983 diviene presidente del sindacato di Xapuri, carica che manterrà fino al suo assassinio. Le sue lotte in difesa del popolo e della ricchezza della foresta amazzonica gli valgono grandi riconoscimenti internazionali, tra cui il premio «Global 500» assegnatogli dall’Onu nel 1987. Ma anche la condanna a morte: il 22 dicembre 1988 viene ucciso a revolverate dagli scagnozzi di un allevatore di bestiame. Ancora oggi, Chico è un esempio per chi crede che il «progresso» non si raggiunge a spese della natura.