Urja Pradesh, lo “Stato dell’energia”. Così il primo governatore dell’Uttarakhand, Bhuwan Chandra Kanduri, ribattezzò nel 2007 il neonato Stato della Federazione indiana, condannato fin da principio a saziare gli appetiti energivori del gigante economico nazionale. Una maledizione che il territorio dove sorge l’intero bacino del Gange non si è più scrollata di dosso, continuando a pagare un prezzo altissimo per la ricchezza idrica dei suoi ghiacciai. Lo scorso 7 febbraio, l’ennesima tragedia si è abbattuta sull’ecosistema locale: un enorme blocco di roccia e ghiaccio si è staccato dal Nanda Devi, la seconda montagna più alta dell’Himalaya indiano, provocando una valanga che ha spazzato via villaggi, strade, ponti e due impianti idroelettrici costruiti proprio a ridosso del ghiacciaio lungo il fiume Rishiganga, affluente dell’Alaknanda, uno dei tre principali rami del Gange.
Una tragedia annunciata, che non può essere imputata soltanto al riscaldamento globale. Se da un lato la comunità scientifica non è sorpresa che un evento del genere si verifichi durante la stagione più fredda – dal 2000 a oggi lo scioglimento dei ghiacciai himalayani ha raddoppiato la propria velocità di avanzamento e un terzo della copertura attuale potrebbe sciogliersi entro la fine del secolo – dall’altro una responsabilità fondamentale va ascritta all’avidità della lobby idroelettrica indiana. La valanga infatti ha riportato subito alla mente l’alluvione che nel 2013 fece oltre 6mila morti nella valle del Mandakini, altro ramo principale del Gange. In quell’occasione, la Corte Suprema dell’India accertò che le numerose dighe impiantate lungo il corso del fiume contribuirono al disastro amplificando la portata dell’alluvione. Gli enormi tunnel scavati nella roccia per consentire che l’acqua, una volta alimentate le turbine idroelettriche, venga restituita al corso dei fiumi “indeboliscono le montagne attraverso fratture e fenditure aumentando il rischio di frane”. Mentre “gli impianti idroelettrici costruiti in zone paraglaciali – come quelli coinvolti nella tragedia di quest’anno, ndr – amplificano i rischi legati allo scioglimento dei ghiacciai”: se valanghe, alluvioni e frane sono abbastanza impetuose da abbattere una diga, il potenziale distruttivo che riversano lungo il corso delle valli ne risulta infatti moltiplicato, così com’è avvenuto nel caso del Rishiganga.
Dopo lo “Tsunami dell’Himalaya”, come venne ribattezzata l’alluvione del 2013, e le successive raccomandazioni della Corte Suprema, che invitava ad arrestare la proliferazioni di nuovi impianti, sembrava che finalmente il settore idroelettrico si avviasse verso una maggiore regolamentazione, che gli studi d’impatto ambientale sarebbero stati seri e affidati a organizzazioni indipendenti. Al contrario però, dopo essere stati sospesi per qualche tempo, i progetti che insistono sul bacino del Gange sono ripartiti con nuovo impeto sotto l’attuale premier Narendra Modi. Soltanto in Uttarakhand al momento sono operativi o in fase di realizzazione oltre 500 impianti idroelettrici.
“Il processo decisionale – spiega Sunita Narain, direttrice generale del Centre for Science and Environment – è delegato a comitati senza faccia e senza nome, che mischiano le carte per assicurare ai progetti il nullaosta desiderato. Ne ho avuto prova diretta nel 2013, quando sono stata membro del Ganga River Basin Authority, il comitato inter-ministeriale che si occupa delle questioni inerenti il bacino del Gange. Vengono approvati nuovi impianti idroelettrici uno a ridosso dell’altro, con la consapevolezza che sconvolgeranno il 90 per cento del corso dei fiumi. Un carico insostenibile per una regione fragile come quella himalayana”.
A essere ignorate non sono state soltanto le raccomandazioni della Corte Suprema e delle associazioni ambientaliste. Anche gli abitanti della municipalità di Chamoli, quella più colpita dalla valanga, avevano denunciato i pericoli connessi all’impianto di Rishiganga, la diga più a ridosso del Nanda Devi. Nel 2019, la popolazione del villaggio di Raini aveva fatto causa contro il progetto, denunciando una lunga serie di esplosioni effettuate alla base del ghiacciaio, i cui detriti erano stati abbandonati nel letto del fiume. Nonostante i successivi ordini della Corte statale dell’Uttarakhand di arrestare le esplosioni e bonificare l’area, la costruzione dell’impianto era però proseguita come niente fosse. “Quando mi hanno chiesto di rappresentarli – ha raccontato alla CNN, l’avvocato Abhijay Negi – gli abitanti di Raini erano preoccupati che ‘un giorno la montagna crollerà se non si arrestano le esplosioni’. Sono persone ben note per l’armonia in cui vivono con l’ecosistema locale e hanno fatto tutto quello che potevano per evitare questa tragedia”. Il villaggio di Raini è stato la culla del noto movimento ambientalista Chipko, “degli abbracci”, con cui negli anni Settanta le donne locali riuscirono ad arrestare il disboscamento delle valli dell’Alaknanda e a promuovere a livello nazionale l’Indian Forestry Act del 1980. Un successo che non è stato possibile replicare di fronte all’inarrestabile lobby idroelettrica.
Nel 1963, Jawaharlal Nehru – compagno del Mahatma Ghandi e leader storico dell’India indipendente – inaugurò la colossale diga di Bhakhra sul fiume Satluj, uno dei primi grandi impianti idroelettrici indiani. L’opera venne presentata alla popolazione come “un tempio dell’India moderna”. Nel disegno di Nehru le dighe avrebbero dovuto portare acqua corrente alle famiglie, irrigare i campi, fornire energia alle industrie del Paese. Da allora, secondo il South Asia Network on Dams, Rivers and People, in India sono stati costruiti oltre 5mila impianti idroelettrici, che hanno causato la scomparsa di migliaia di ettari di foresta e lo sfollamento di oltre 60milioni di persone. Inoltre, il 90% di questi impianti non produce i livelli d’energia promessi in fase di realizzazione, rimanendo spesso fermo sia nella stagione delle piogge, a causa dell’accumulo di sedimenti, che in quella secca, per lo scarso flusso d’acqua. Le grandi distanze che intercorrono tra i centri di produzione sull’Himalaya e i luoghi di consumo, le megalopoli della pianura indiana, fanno si che la maggior parte dell’energia prodotta si disperda poi lungo le linee di trasmissione.
La diga di Theri, operativa dal 2005, è il gigante della valle del fiume Bhagirathi, ramo principale del Gange. Un impianto da 2000MW, la cui costruzione ha portato all’allagamento di un’ampia porzione della valle, sommergendo 40 villaggi e causando lo sfollamento di oltre 100mila persone. A monte della diga, gruppi di operai armati di martelli, seghe e carriole s’aggirano per villaggi semisommersi e abbandonati, intenti a recuperare quanto possibile. Risalendo ancora verso la sorgente del Gange, il fiume è ridotto a un infimo rigagnolo che scola su un letto di pietre secche e polvere. L’acqua è risucchiata nei tunnel che alimentano le turbine degli impianti idroelettrici di Maneri-Bhali I e II. Per costruire queste gallerie è servita una lunga serie d’esplosioni sotterranee, che ha provocato enormi danni collaterali in superficie: villaggi terremotati, fonti d’acque inghiottite dalle viscere della terra, coltivazioni e pascoli persi per sempre.
Inefficienza, devastazione ambientale, massicce campagne di sfollamento coatto. Le evidenti contraddizioni di questa forma di produrre energia “pulita” non sembrano però metter in discussione un settore in continua crescita. Le compagnie che operano sull’Himalaya possono vantare un solido sostegno politico e finanziario. Oltre ad Asian Development Bank e Banca mondiale, che dopo essersi tenuta fuori dal business dell’idroelettrica per qualche anno è tornata a finanziare molti progetti, i capitali arrivano da diverse banche internazionali e da una lunga serie d’investitori privati, tra cui i gruppi Salini-Impregilo e Siemens. In linea con i suoi predecessori, Modi è un forte sostenitore della lobby idroelettrica e fin dal suo primo mandato (2014) si è impegnato a rilanciare progetti in fase di stallo, inaugurare impianti ancora incompleti, fomentare l’avviamento di nuove opere smisurate.
In Himachal Pradesh, lo Stato confinante con l’Uttarakhand, buona parte della popolazione locale si batte per contrastare il piano del governo che punta a raddoppiare la potenza idroelettrica installata lungo il fiume Satluj. A Luhri, a esempio, ci si oppone a un impianto da 210MW promosso dall’impresa pubblica Satluj Jal Vidyut Nigam (Sjvn) e rilanciato a fine 2020 dal potente ministro dell’Interno, Amit Shah, che ha annunciato con un tweet “il grande regalo del premier Modi alla popolazione dell’Himachal”: un finanziamento pubblico da oltre 250milioni di dollari per un progetto che comporterebbe la perdita di quasi 300 ettari di foresta e la scomparsa di 27 villaggi sommersi dall’acqua. La Sjvn, una join-venture tra governo federale e statale, è da sempre tra le protagoniste dell’idroelettrica in Himachal, dove tra gli altri ha costruito il gigante da 1500MW di Nathpa-Jhakri. Accanto a questo colosso pubblico, che opera anche in Nepal e Bhutan, nella regione si stanno facendo spazio nuovi protagonisti, come il Jaypee group, che ha realizzato il più grande impianto idroelettrico privato dell’India, la Karcham Wangtoo (1000MW), finita più volte davanti alla Corte Suprema per le proteste locali.
In Kashmir, ultimo Stato della dorsale occidentale dell’Himalaya indiano, la costruzione di nuovi impianti lungo il bacino del fiume Indo – da cui dipende oltre l’80% dell’agricoltura pakistana e la sopravvivenza di milioni di persone – sta inasprendo le tensioni con il Pakistan. La disputa per il territorio, già causa di 4 campagne militari, si è trasformata in una contesa soprattutto per le risorse idriche. L’Indus Water Treaty, sottoscritto nel 1960 da India e Pakistan sotto l’egida della Banca mondiale, assegna i 3 affluenti orientali (Beas, Ravi e Sutlej) al controllo indiano, mentre i 3 occidentali (Indo, Chenab e Jelhum) a quello pakistano. Fin dai primi anni Novanta però il governo indiano usa le more del trattato per sfruttare anche le acque destinate al Pakistan, rassicurando la comunità internazionale che ogni goccia d’acqua, una volta passata attraverso le turbine degli impianti idroelettrici, viene restituita al corso dei fiumi. In Pakistan la questione infiamma la propaganda anti-indiana più radicale, mentre le vie diplomatiche non hanno finora portato risultati favorevoli: la Banca mondiale ha dato il nullaosta alla costruzione delle due dighe di Baglihar sul fiume Jhelum e a quella di Ratle sul fiume Chenab, mentre la International Court of Arbitration dell’Aja ha riconosciuto all’India il diritto di portare a termine anche l’impianto di Kishanganga sull’omonimo affluente dello stesso Jhelum.
Se ciò non bastasse, Modi ha promesso di portare a termine un mastodontico progetto da 87miliardi di dollari per la realizzazione di una rete di canali e dighe che connettano 60 tra i principali fiumi indiani, incluso il Gange. Nella lista degli impianti coinvolti figurano anche quelli di Loharinag-Pala e Bhaironghati, i progetti più prossimi alla sorgente del Gange, ufficialmente bloccati nel 2009, quando le proteste costrinsero il governo indiano a decretare che i primi 135 chilometri del corso del Bhagirathi venissero lasciati scorrere liberi da ogni tipo d’impianto. “Ci hanno assicurato che i progetti sono stati cancellati per sempre, ma sono consapevole che potrebbero riprendere in qualsiasi momento”, ha ripetuto più volte Guru das Agrawal, tra i più eminenti scienziati dell’India e importante personalità religiosa, che ha passato buona parte della sua vita battendosi per il libero flusso di “Mother Ganga”, come i fedeli induisti chiamano il fiume a loro più sacro. Nonostante si fosse rivolto più volte al premier, Modi ha sempre rifiutato di riceverlo o rispondergli. “Il problema – ha spiegato Agrawal, morto nel 2018 dopo un ultimo digiuno di protesta durato 111 giorni – restano gli interessi finanziari degli individui coinvolti: dagli uomini d’affari ai tecnici, dagli ufficiali governativi fino agli abitanti dei villaggi locali, tutti pensano solo al denaro. In nome di ciò che chiamano sviluppo, sono pronti a vendere la propria Madre”.