Sidi l’orbo è seduto sulla panca di legno dall’altro lato dello scompartimento, proprio di fronte a me. Dall’houli, il tipico turbante con cui gli uomini del deserto si proteggono dal sole rovente e dal vento pregno di sabbia, spuntano soltanto i suoi occhi. Uno, iride e pupilla bianche, è fisso verso il cielo. L’altro si tuffa di continuo nello mio sguardo smarrito ma curioso. Scuro e minuto, avvolto in un boubou azzurro, lo avevo notato per la prima volta quando il convoglio era arrivato in stazione: mentre la folla arrembava l’unico vagone passeggeri, saltando dentro attraverso i finestrini o facendosi largo a gomitate e colpi bassi, lui era l’unico a non aver perso calma e grazia. Alle sue spalle, un negro enorme costretto in una tuta militare verde e un mauro incappucciato da un lungo jellabah color sabbia, si contendevano l’onore di occuparsi del suo bagaglio striminzito.
Sono il solo turista a bordo del “treno del ferro”, il merci più lungo del mondo. Partito da Nouadhibou sulla costa mauritana, il treno s’inoltra nel deserto seguendo la linea di frontiera col Sahara occidentale. Costeggiato il magnifico altopiano dell’Adrar fino a Choum, svolta verso nord diretto alle turbolente miniere di Zouérat, dove caricherà oltre 20mila tonnellate di preziosi minerali. Il vagone che ci ospita, in coda al convoglio, è una scatola di sardine infuocata dal sole, pronta a trasformarsi in una cella frigorifera al calar della notte. Ogni minima frenata è accompagnata da scossoni violenti, che scaraventano al suolo i passeggeri sorpresi in piedi, rovesciano fornelletti e teiere, sconvolgono l’equilibrio precario dei bagagli sopra le nostre teste. Pregna della sabbia del deserto, l’aria si respira a fatica.
Ma quando Sidi comincia a cantare, tutto s’accende di un’energia straordinaria. Ci spelliamo le mani per accompagnare i suoi versi. Alcune donne sembrano possedute, e con la lingua modulano le tipiche urla berbere. I più temerari s’alzano in piedi e provano a danzare, fin quando lo scossone successivo non li scaraventa di nuovo a terra, tra gli improperi di chi fa da materasso e le ghignate degli altri. Sidi canta in hassaniya, il dialetto arabo parlato dai mauri. “È il più grande griot del nostro Paese – mi spiega l’anziano accartocciato al mio fianco – e i suoi versi parlano di tutti noi, te compreso. Racconta che gli uomini non dovrebbero speculare su ciò che li separa, ma coltivare invece quello che hanno in comune. Allah abbraccia tutti e ama la pace. Sono gli uomini che adorano discutere e dissentire”.
Menestrelli, cantastorie, poeti, storici, sciamani. Confinare la figura dei “griot” nei nostri confortanti casellari è impresa sciagurata e presuntuosa. Da secoli, in Africa occidentale la voce dei “maestri della parola” gioca il ruolo essenziale di memoria storica, guida rispettata e temuta, custode del mito e della tradizione. Il termine francese griot (griotte al femminile) ha origine oscure. Più illuminante invece l’etimologia delle espressioni usate nelle lingue africane: in wolof ci si riferisce a loro colla parola géwel, che significa “formare un cerchio attorno a una persona”; mentre in malinkè si usa il termine jeli o jali, che vuol dire “trasmissione attraverso il sangue”. Quella dei griot è infatti una casta chiusa, in cui la conoscenza viene tramandata di padre in figlio. L’apprendistato, diviso in cicli che accompagnano ogni fase della crescita, dura una vita intera. L’istruzione è fondamentale: l’apprendista sarà depositario della storia e della genealogia di un’intera comunità, dovrà padroneggiare un repertorio vastissimo di canzoni tradizionali. Anche l’insegnamento musicale gioca un ruolo chiave. Spesso infatti i versi sono esaltati dalle vibrazioni della kora, una sorta di arpa costituita da una zucca vuota cui sono collegate 21 corde, o dalle percussioni di balafon (xilofono) e djambè (tamburo).
Prima della colonizzazione europea, il griot era una figura di primo piano nell’organizzazione sociale dell’Africa occidentale. Al servizio dei jatigi, gli imperatori guerrieri, erano assunti al ruolo di consiglieri intimi, ambasciatori fidati, stregoni temuti e rispettati. Ogni famiglia reale viveva a stretto contatto con una famiglia di griot. Erano loro a cantare la voce del Popolo, a mediare le relazioni del Re con i suoi sudditi e con gli altri regni. Nel XIII secolo, quando l’impero del Mali si estendeva dall’Africa centrale fino alla costa occidentale, il giovane imperatore Sundjata Keita non prendeva una decisione senza il consenso di Balla Fassèké Kuyatè. Questo griot, che ha reso la sua stirpe tra le più celebri, gli era stato donato dal padre in punto di morte proprio per sostenerlo alla guida del regno.
Oggi invece ai menestrelli non è più permesso avvicinarsi ai palazzi del potere. Modellati sulle esigenze delle potenze coloniali, gli attuali sistemi politici africani non sono più in grado di tollerare l’indipendenza e il carisma caratteristici di un griot. Ciò non ha comunque compromesso la valenza sociale di questa figura, che continua ad avvicinare le persone tra loro, mediare e appianare i piccoli conflitti quotidiani , risultando un collante sociale senza pari. La presenza dei cantastorie è inoltre condizione indispensabile di ogni cerimonia pubblica di qualche importanza. Soprattutto nelle aree rurali e nei villaggi di piccole e medie dimensioni, il griot è invitato a patrocinare matrimoni, battesimi e funerali.
Tra i maestri della parola non esistono discriminazioni di genere. Al contrario, spesso sono proprio le donne a indossare i panni di custodi della tradizione orale africana. Sui palcoscenici dello spettacolo o tra le strade polverose dell’Africa occidentale, le griotte continuano a esercitare la loro professione con passione e impegno. Tahra Mint Hembara, nipote della celebre griotte Lekhdera Mint Ahmed Zeidane, è una delle cantanti più note della Mauritania. In Mali tra i nomi più conosciuti c’è invece quello di Kandia Kouyatè, “la dangereuse”, che coniugando una straordinaria presenza di scena con la sua voce poderosa si è assicurata una fama senza pari tra le sue colleghe. Ma è Rokia Traoré a essersi meritata il titolo di voce delle giovani maliane, affrontando nei suoi testi il ruolo delle donne nella società del Mali.
“Nessuna professione in altre zone del mondo può vantare un coinvolgimento così articolato e intimo nella vita della comunità. Ciò che distingue il canto dei griot da quello dei poeti della tradizione occidentale – racconta, nel suo libro Griots and Griottes, il professore statunitense di letteratura comparata africana Thomas Hale – è la combinazione dell’arte poetica con una sorta di potere occulto, che incute rispetto e a volte paura”. Nelle aree in cui l’animismo è ancora radicato, esistono griot specializzati nell’invocazione dei jinn, parola araba con cui sono indicati geni, demoni e ogni altro spirito. Nei loro canti pervasi di magia evocano l’energia dei padri e delle forze naturali per ottenerne la benedizione sulla comunità. In alcuni casi però un misto di timore e superstizione ha portato anche all’emarginazione dei griot. In molti villaggi i loro corpi non vengono interrati nel cimitero della comunità, ma lasciati invece decomporre nell’incavo di vecchi baobab o nei pressi di altri alberi particolari. È credenza diffusa infatti che la loro sepoltura renderebbe sterile la terra, dato che i cantastorie si sono sempre rifiutati di coltivarla, vivendo per tradizione delle offerte libere di chi li ascolta.
Nell’Africa occidentale contemporanea, soprattutto nei contesti più urbanizzati, l’aspetto maggiormente valorizzato della tradizione griot è quello artistico. I talenti più noti sono invitati a festival teatrali e musicali in tutto il mondo, o recitano come attori cinematografici. Personaggi come il maliano e Salif Keita hanno firmato alcuni dei più grandi successi della world music, e possono vantare un seguito a livello globale. Sempre più spesso le melodie tradizionali vengono sincretizzate con i ritmi della musica pop, reggae e jazz. Anche alcuni strumenti sono stati rinnovati: le strisce di pelle d’antilope da cui si ricavano le corde tipiche della kora sono state sostituite dal più comodo filo di nylon. Diversi artisti come Tahra, discendente di una delle più antiche stirpi di griot della Mauritania, non disdegnano l’uso del sintetizzatore. Altri come Rokia Traoré, voce delle donne del Mali, preferiscono invece l’accompagnamento della chitarra elettrica a quello della tradizionale kora. In tanti hanno cercato la via del successo emigrando verso i palcoscenici europei, sovente senza incontrare la fortuna sperata.
Se i nomi più celebri di oggi sono soprattutto quelli di cantanti e musicisti, i griot continuano però a rimanere essenzialmente i custodi della leggenda del loro popolo. “Noi siamo sacchi di parole – diceva il celebre Mamadou Kuyatè – che racchiudono segreti secolari. Senza di noi i Re cadrebbero nell’oblio, diamo vita alle loro gesta davanti alle nuove generazioni. Siamo la memoria degli uomini, per noi non esistono segreti”. La storia africana non conosce documenti e scritture, è sempre stata tramandata oralmente. Ogni generazione ha rielaborato la versione che l’è stata passata, arricchendola. “Proprio per questo – scriveva Ryszard Kapuscinski nel suo capolavoro Ebano – la storia qui, libera dal peso degli archivi e dal rigore dei dati, raggiunge la sua forma più pura e cristallina: quella del mito”.