Il modo più semplice e comune per spostarsi ad Addis Abeba è prendere un “taxi”. Vecchi pulmini Toyota, che si muovono lungo tratte definite e prima di prendere il largo devono essere al completo. Dieci sedili più quello dell’autista, su cui però capita spesso di viaggiare in oltre venti persone. Sono molti i lavoretti informali collegati con questo trasporto pubblico. C’è il weyala, un ragazzino che spunta fino alla cintola dal finestrino del mezzo in corsa e si occupa di invitare a suon di urla i passeggeri a bordo per poi raccogliere tra loro il prezzo delle rispettive corse. Ci sono i tera askebari – letteralmente i “responsabili della fila”, che attendono i pulmini nelle principali fermate di carico/scarico passeggeri e provano a far rispettare l’ordine di precedenza – e i santeem – i “centesimi”, che in cambio di un birr, la valuta nazionale, riforniscono i weyala con 95 centesimi spicci, utili a dare il resto ai clienti. C’erano anche i finti passeggeri: per abboccare clienti, 3 o 4 ragazzini si sedevano all’interno del mezzo fermo al capolinea, pronti a scendere non appena il pulmino si fosse riempito a sufficienza. Da qualche anno però, quest’ultima figura è sparita. Addis Abeba ha cominciato ad andar di corsa e nelle stazioni i taxi si riempiono e si svuotano in un baleno.
La “città foresta”, fondata alla fine del XIX° secolo dall’imperatore Menelik II e da sua moglie Itegue Taitu, si sta trasformando in una moderna “concrete jungle”. Nuovi grattacieli in vetro-cemento spuntano come funghi, mentre i tradizionali quartieri-villaggio fatti di baracche di legno, terra e paglia vengono rasi al suolo per lasciar spazio a una sky-line degna di una capitale globale. Lungo la rete autostradale, sempre più vasta e trafficata, gli ultimi modelli di fuoristrada si fanno largo tra vecchi maggiolini e furgoncini arrugginiti. Neppure la nuova metropolitana di superficie, entrata in funzione da qualche mese, pare sufficiente ad arginare la frenesia che s’è impossessata della città. Combattuti tra l’entusiasmo per il nuovo che avanza e lo sconcerto per il caos che li ha circondati di colpo, gli abebini attendono con pazienza e fiducia che la polvere della città-cantiere si diradi e il treno splendente della modernità lasci salire a bordo finalmente anche loro.
Inserita da New York Times e Lonely Planet tra le città più interessanti da visitare al mondo, la capitale diplomatica dell’Africa – sede dell’Unione Africana, delle Nazioni Unite e di tutte le più importanti agenzie di cooperazione allo sviluppo impegnate nel continente, Addis Abeba è la terza città al mondo per numero di diplomatici dopo New York e Ginevra – vive una trasformazione straordinaria. Da oltre 10 anni, la crescita economica è decisa e costante mentre il valore degli immobili si moltiplica a dismisura: secondo la Global Real Estate “Knight Frank”, Addis è tra le prime 4 città al mondo per le opportunità di creare ricchezza nel prossimo futuro. Una prospettiva che oltre agli investimenti esteri alimenta anche l’immigrazione: dai 3milioni d’abitanti del 2010, la capitale etiope dovrebbe raggiungere gli 8milioni entro il 2025. Oltre a crescere in verticale, la capitale si estende su una superficie sempre più vasta. Oggi lo sguardo non riesce a coprirla neppure dalla cima di Entoto, la montagna da cui Menelik e Taitu discesero con la loro tribù di guerrieri per fondare “il nuovo fiore” (in amarico addis, “nuovo”, ababa, “fiore”).
Per far fronte all’emergenza abitativa di una città ancora coperta in gran parte da baraccopoli – secondo UN Habitat, l’80% di Addis è classificato come slum – il governo federale sta portando avanti il Grand Housing Program, che prevede la costruzione di migliaia di condomini popolari. Palazzoni eretti in piccoli blocchi nelle aree centrali e in fitte schiere nella periferia che si allarga a macchia d’olio. Soltanto nella capitale, 75mila nuovi appartamenti sono già stati assegnati ai loro proprietari mentre altri 200mila sono in cantiere. Le varie formule -10/90, 20/80 e 40/60 – prevedono che si anticipi una percentuale del prezzo dell’immobile e si cominci a pagare da subito il resto a rate, per ricevere la propria casa dopo alcuni anni. Una rivoluzione che si chiama mutuo. Quando uscì il bando per assegnare i primi lotti c’erano file lunghissime fuori dalle banche. Il numero dei divorzi aumentò all’improvviso: ogni nucleo familiare poteva fare una sola richiesta di appartamento e così i coniugi più furbi si separarono per raddoppiare le probabilità. Finora hanno fatto richiesta di un appartamento oltre mezzo milione di famiglie. Al mutuo però riesce ad accedere solo una piccola parte della classe popolare, ancora ostaggio di una politica salariale pensata più per attirare capitali stranieri affamati di braccia a basso costo che non per sviluppare una classe media in grado di affrontare il “salto” verso la modernità. Per coloro che potranno permettersi di versare l’anticipo, la promessa di un bagno tutto per sé rappresenta una rivoluzione epocale. Tanti altri però rischiano di perdere il poco che hanno a causa degli espropri e di finire in una nuova baraccopoli a decine di chilometri di distanza da quello che fino a oggi è stato il centro delle loro vite.
Di fronte al dilagare delle nuove periferie di Addis, il governo sta investendo con decisione sui trasporti. Da settembre è entrato in funzione il babur, il primo treno leggero urbano dell’Africa sub-sahariana, mentre nei prossimi 2 anni dovrebbero essere realizzate 7 linee di Bus Rapid Transit (Brt) in grado di assicurare un collegamento rapido e consistente con le nuove aree dove si sta pian piano trasferendo la working class. Il treno è uno dei frutti più significativi della consolidata partnership politico-commerciale tra il governo etiope e quello cinese. L’opera, completata in soli 3 anni e costata 475milioni di dollari, è stata finanziata per l’85% grazie a un prestito della Export-Import Bank of China, mentre Shenzhen Metro Group e China Railway Engineering Corporation si occuperanno della gestione per i prossimi 5 anni. L’immagine che meglio rappresenta questo matrimonio d’affari è la cabina di pilotaggio dei treni, dove un apprendista etiope affianca il macchinista cinese destinato col tempo a passargli il comando. “Il babur -ha dichiarato alla Cnn il direttore generale della Ethiopian Railways Corporation, Getachew Betru- non è un’impresa votata al profitto ma un’infrastruttura sociale voluta per aiutare Addis Abeba a crescere”. Il costo dei biglietti è in effetti molto popolare, facendo del treno, più che di ogni altra opera realizzata finora nella capitale, il simbolo di una modernità finalmente alla portata di tutti. Il tracciato della ferrovia sopraelevata ha compromesso molte delle piazze storiche di Addis: la fontana mosaico di Mexico square – simbolo dell’alleanza con l’unico Paese ad aver appoggiato le denuncie dell’Etiopia contro l’occupazione fascista davanti alla Lega delle Nazioni – è stata distrutta, mentre la statua Olmec è relegata nel cortile del National Museum accanto a quella dell’Abuna Petros – il prete ucciso nel 1936 dai fascisti per aver condannato in pubblico l’occupazione e il colonialismo – anch’essa rimossa dall’omonima piazza per far spazio alla ferrovia. I ponti di cemento su cui corrono i binari sopraelevati hanno inoltre oscurato il Leone di Giuda nella piazza di La Gare e il balcone da cui i leader politici erano soliti rivolgere i loro discorsi alle adunate di popolo in Meskel Square. In pochi però se ne lamentano, mentre gran parte degli abebini sembra accettare di buon grado il sacrificio. Il babur rappresenta il presente e il futuro, la modernità che avanza in una società affamata di progresso. Mentre il treno viaggia sui ponti di cemento, tanti passeggeri stanno appiccicati ai finestroni guardando la loro città che scorre fuori come non l’hanno mai vista prima.
Per far spazio alla nuova Addis che cresce in verticale – grattacieli dai vetri a specchio che ospitano uffici, hotel e centri commerciali, ma anche scheletri di cemento e sgraziati palazzoni ancora vuoti – il governo sta facendo tabula rasa dei vecchi sefer, i quartieri popolari più antichi della città. Basse casette di legno e terra, costruite attorno a un cortiletto con un tubo dell’acqua e una latrina in comune, tra cui spunta qualche pregevole palazzetto in pietra di stile architettonico indiano o italiano (storiche comunità immigrate, insieme ad armeni, greci e turchi). Piccoli villaggi che si ricoprono di un tappeto di fango scivoloso durante la stagione delle piogge, in cui acqua ed elettricità sono precarie tutto l’anno e il sistema fognario ancora inesistente. Ma anche luoghi impreziositi da un forte tessuto sociale, costituito da un intreccio di relazioni di gorabet (vicinato) ed economia informale. Tagliati fuori dal mercato tradizionale del credito, qui gli abitanti hanno messo in piedi “istituzioni” finanziarie alternative come l’idir e l’ikub: il primo è una sorta di cassa comune di quartiere, che viene utilizzata per sostenere matrimoni e funerali; il secondo invece fornisce a rotazione somme destinate a piccoli investimenti. Ai lati delle strette strade di terra e sassi, spuntano botteghe artigiane di fabbri, sarti e falegnami, si affacciano suk e mercatini di ogni tipo. Qui e là, una rivendita di carbone – ancora oggi il combustibile più utilizzato per cucinare – o un mulino, dove la gente porta a macinare il berberè – il mix di spezie che accompagna quasi ogni wot (sugo) – e la farina di teff – cereale dalle proprietà straordinarie tipico dell’Altopiano etiope con cui si prepara l’enjera, una sorta di crépe spugnosa che rappresenta l’alimento base di ogni famiglia. Dagli usci delle case arriva l’aroma del caffè appena tostato, che si diffonde nell’aria come una benedizione.
La presenza di queste realtà nelle stesse zone dove si concentrano anche uffici e aziende, alberghi di lusso e centri commerciali, fa si che il povero e il ricco vivano gomito a gomito, contribuendo a garantire la pace sociale in una società dove le disparità economiche sono ogni giorno più grandi. I continui espropri di cui il governo si sta servendo per liberare le aree che fanno più gola agli speculatori immobiliari, rischiano di incrinare questo fragile equilibrio. Davanti a una modernità che avanza prepotente, le forti tradizioni etiopi saranno abbastanza solide da mettere “l’isola felice” dell’Africa orientale al riparo dalle pessime correnti in qui annaspano i Paesi confinanti (Sudan, Somalia, Eritrea, Kenya)? A dar speranza è soprattutto il primato indiscusso di una spiritualità pressoché universale. Non è un Paese per atei, l’Etiopia. Basta assistere a una delle tante processioni che affollano il calendario religioso della Chiesa Ortodossa nazionale per avvertire la straordinaria energia che tiene insieme questa gente. Quando il Tabot che simboleggia l’Arca dell’alleanza, le tavole della legge di Mosè, esce dalle chiese per andare tra i fedeli, fiumi di gente lo accompagnano intonando canzoni, battendo le mani e innalzando gli elelta, impareggiabili grida di estasi emesse facendo saltare ritmicamente la lingua sul palato. Un’estasi contagiosa, in grado di rapire chiunque decida di accompagnare una processione. Ad Addis questi mistici carnevali di strada si ripetono 2 volte all’anno per ciascuno dei santi protettori di centinaia di chiese. In occasione del Timkat, la celebrazione del battesimo di Gesù Cristo, le strade della capitale vengono chiuse al traffico e i Tabot partono contemporaneamente da tutti i santuari, trasformando la città nel teatro pulsante della più poderosa street-parade del pianeta.
Per divenire la “nuova New York d’Africa” Addis non sembra disposta a vendere l’anima. Spazzate ogni mattina da un esercito che ha per unica uniforme dei cappelli di paglia a tesa larga, le vie della città non sono ostaggio di bande criminali. Secondo il Crime Index 2015, la città è tra le più sicure del mondo, mentre l’Etiopia è al 15esimo posto della classifica per Paesi (il Kenya, meglio posizionato tra i Paesi limitrofi, è al 114esimo). Passeggiando tra le baraccopoli del centro si rischia tutt’al più di venire importunati da qualche mano tesa a implorare una moneta. Al contrario questi vicoli popolari nascondono un sistema di scatole magiche, di porte socchiuse che nascondono un’altra porta. Un tesoro alla portata di chiunque mostri cordialità e rispetto.
Qui il tempo pare ancora avere un’altra dimensione. Seduta ai tavolini dei tanti caffè della città, la gente discute d’affari e nuovi progetti, sussurra d’amore e di politica. Senza fretta. Nessuno entra, ingolla il suo macchiato e scappa via di corsa. In ogni abitazione, tra i pezzi d’arredamento più importanti, c’è un tavolino basso su cui è sistemata una serie di tazzine senza manico e una brocca d’argilla scura dal collo stretto, la jebena, prima caffettiera della storia. Ogni giorno la padrona di casa distende davanti al tavolo un tappeto di erba tagliata di fresco, il guzguaz. I chicchi di caffè vengono tostati in una scodella concava fin quando non raggiungono la giusta colorazione. Prima di pestarli nel mortaio, la donna ne diffonde la fragranza fumante tra gli ospiti con una serie di gesti delicati delle mani. La jebena piena d’acqua bollente giace su un piccolo braciere, pronta a ricevere la polvere di caffè. Al momento di servire la bevanda possono essere aggiunti zucchero e un ramoscello di ruta. Ma anche burro e sale, o addirittura dell’aglio, a seconda della regione di provenienza della famiglia. Il primo giro, abol, è per gli anziani e per i padri. Il secondo e il terzo, tona e baraka – ottenuti aggiungendo nuova acqua nella jebena e dunque meno forti – sono invece per le madri e per i più giovani. Ogni giro è accompagnato dal cholo (mais, orzo, grano e ceci tostati). Una cerimonia che può durare ore e rappresenta l’occasione ideale per confrontarsi, affrontare problemi e progettare il futuro insieme ai propri cari. Un rito antico e sempre vivo, che trasforma il caffè da semplice bevanda in strumento liturgico. Un antidoto con cui provare a fronteggiare una modernità dalla lingua biforcuta.