Yacimentos Petroliferos Fiscales de Bolivia (Ypfb), impresa del popolo, ha riacquistato il controllo di gas e petrolio della Bolivia. Il primo maggio, a meno di 100 giorni dalla sua elezione, il neo Presidente della Repubblica di Bolivia, l’indigeno di etnia aymara Evo Morales, ha firmato il Decreto Supremo 28701 con cui lo Stato dispone che “tutte le riserve di petrolio e gas naturale del Paese devono essere nazionalizzate”. In una terra dove la ricchezza di risorse naturali è una maledizione che da oltre 5 secoli si traduce in sfruttamento e povertà soffocante per gran parte della popolazione, è un’occasione storica: dopo aver visto esaurire le miniere d’argento e di stagno senza che gli stranieri lasciassero cadere una sola briciola dalle tasche, oggi i boliviani si riappropriano delle risorse energetiche intenzionati a usarle come strumento d’emancipazione economica.
Nel Sudamerica le riserve di gas naturale della Bolivia sono seconde soltanto a quelle venezuelane. E il Paese possiede anche importanti giacimenti petroliferi da cui estrae circa 1 milione di barili al giorno. Ciononostante continua a essere il più povero della regione: secondo la Banca Mondiale nel 2004 il Pil pro capite ammontava a 900 dollari all’anno per un’aspettativa di vita media inferiore ai 64 anni. Aymaras, quechua, mojenos, chipayas, muratos e guaranì: secondo l’ultimo censimento gli indios rappresentano il 62,2% della popolazione. Dall’altra parte del muro, a “fare le spese” della rivoluzione avviata dal nuovo Governo, c’è il “gotha” mondiale degli idrocarburi: Andina (Repsol), Petrobras, Total, Chaco (British gas), Transred (Shell) sono i nomi che spiccano nella lista delle 26 compagnie straniere attive sul territorio boliviano. La spagnola Repsol, proprietaria di gran parte dei gasdotti del Sudamerica, controllava da sola oltre un quarto delle riserve di gas e petrolio del Paese. La brasiliana Petrobras, che dal 1999 in Bolivia ha effettuato investimenti per 1,5 miliardi di dollari, produce il 60% del gas boliviano. Total ha una partecipazione del 15% nei giacimenti di San Antonio e San Alberto (il più grande del Paese) che portano alla Francia circa 21 mila barili di greggio al giorno.
Dal 1996, anno in cui il settore energetico boliviano venne privatizzato (vedi box), gli investimenti stranieri hanno superato i 3 miliardi di dollari. Le prime reazioni della comunità internazionale sono state di conseguenza durissime. A Strasburgo, in occasione della visita di Morales al Parlamento europeo, il gruppo dei Popolari ha presentato una mozione secondo cui il provvedimento di nazionalizzazione “viola i diritti umani”: la mozione è stata respinta per una manciata di voti e gli eurodeputati popolari hanno abbandonato l’aula prima che Evo cominciasse il suo discorso. In Brasile se da un lato il presidente Lula ne ha riconosciuto la legittimità, definendola “un atto inerente alla sovranità della Bolivia”, dall’altro José Sergio Gabrielli, presidente di Petrobras, ha minacciato di “sospendere ogni ulteriore investimento” e di “abbandonare il Paese”. Minacce a cui hanno fatto eco tutte le altre compagnie straniere coinvolte.
Per interpretare questa “nazionalizzazione” occorre, anzitutto, allontanare dalla mente il berretto verde del colonnello Fidel Castro. A differenza di quanto avvenuto negli anni Sessanta a Cuba, dove gli interessi stranieri sono stati sistematicamente espropriati, in Bolivia le installazioni e le infrastrutture necessarie all’estrazione e alla raffinazione degli idrocarburi continuano a essere di proprietà degli investitori stranieri e lo Stato ha tutta l’intenzione di dare seguito alle partnership avviate con loro negli ultimi 10 anni. Le compagnie però non avranno più contratti di concessione ma diverranno prestatrici di servizi, dovranno cioè confrontarsi con un’autorità nazionale decisa a ricuperare sovranità e autonomia decisionale sulla proprie risorse energetiche. Conduttore strategico del settore tornerà ad essere la compagnia di bandiera Ypfb, che controllerà le nuove joint venture attraverso il 51% dell’azionariato. Il Decreto prevede 6 mesi di tempo per la negoziazione dei nuovi accordi che – come ha spiegato il Ministro per gli idrocarburi, Andres Soliz Rada – “saranno studiati e stilati valutando gli investimenti e i guadagni ottenuti in passato da ogni singola società”. Per anni lo Stato si è limitato a un prelievo fiscale del 18% su ciascuna operazione d’esportazione. Da oggi, se vogliono continuare a lavorare in Bolivia, le grandi corporations del settore dovranno dunque dire addio agli extra profitti, generati in passato grazie alla complicità di amministrazioni corrotte e prone agli interessi stranieri.
Raffreddati i bollenti spiriti, nessuno se n’è andato sbattendo la porta. Con i prezzi di gas e petrolio che crescono come volessero toccare il sole, i rappresentati di Governi e corporations hanno pensato bene di sedersi al tavolo delle trattative. Come primo risultato il Governo Morales ha portato a casa un nuovo accordo per la fornitura di gas all’Argentina: dal 15 luglio il prezzo a cui Ypfb consegna 7,7 milioni di metri cubi giornalieri di gas naturale è salito a 5 dollari per milione di unità termica (Btu), con un incremento del 56% su quanto pagato in precedenza. Ypfb sarà inoltre socio dell’argentina Enarsa nella realizzazione di un gasdotto nel nord-est dell’Argentina attraverso cui la Bolivia potrà esportare altri 20 milioni di metri cubi giornalieri.
Mentre questo articolo va in stampa sono in corso le trattative con il Governo Lula e con i rappresentanti di Petrobras. Dal 1999 il Brasile importa dalla Bolivia 26 milioni di metri cubi giornalieri, pari al 50% delle sue importazioni di gas naturale. La fornitura è disciplinata da un General supply agreement (Gsa) che prevede aggiustamenti trimestrali: il prezzo, partito da 1,23 dollari a giugno 1999, ha toccato i 4 dollari a luglio 2006. Negli ultimi 15 anni il Brasile ha convertito l’industria paulista e gran parte delle centrali termoelettriche all’uso del gas: oggi l’80% di quello consumato a Sao Paulo proviene dalla Bolivia. Forte dell’accordo raggiunto con l’Argentina il presidente di Ypfb, Jorge Alvarado Rivas, mira a portare il prezzo almeno sopra i 5 dollari. Se entro il 13 agosto le parti non raggiungeranno un nuovo accordo si ricorrerà a un arbitraggio internazionale che avrà luogo a New York, sede dell’autorità competente. Tra i boliviani, dato il periodo, la fiducia nell’esito favorevole della disputa è alle stelle.
“Coca es patria”
Per i popoli andini “coca es patria” ed Evo Morales, una lunga militanza come sindacalista dei piccoli coltivatori della foglia di coca, lo sa molto bene. Masticare coca è il più consueto dei passatempi di gran parte dei boliviani, che in questo modo combattono fame e stanchezza. Il Paese ne è il terzo produttore mondiale, alle spalle di Colombia e Perù: legalizzarne la commercializzazione è stata, insieme alla nazionalizzazione degli idrocarburi, la principale promessa di Evo. Il Governo spera di far uscire la coca dall’elenco Onu delle piante velenose e di poterne avviare il processo d’industrializzazione: dentifricio (la coca è ricca di calcio), shampoo, biscotti e tè sarebbero i primi prodotti a finire sul mercato. Il Venezuela di Chavez si è già detto pronto a investire negli impianti necessari.
La “guerra del gas”
Nel 1996 il Presidente Gonzalo Sanchez de Lozada “capitalizza” le principali imprese pubbliche, trasformandole in società per azioni. In un batter d’occhio Ypfb e altre compagnie statali vengono assoggettate al capitale straniero. Nell’ottobre del 2003 il suo secondo mandato finisce nel sangue: la “guerra del gas”, come verrà ribattezzata, lascia 80 morti tra i manifestanti per la nazionalizzazione degli idrocarburi, costringendo il Presidente alla fuga negli Stati Uniti. Il successivo Governo Mesa, sotto la pressione popolare, promuove un referendum (luglio 2004) in cui il 90% dei partecipanti vota per la nazionalizzazione. Mesa tenta un compromesso politico ed emana (giugno 2005) la nuova “Legge sugli idrocarburi” che innalza il prelievo fiscale sulle esportazioni al 50%. Per i boliviani non è abbastanza, e il malcontento sfocia in nuovi scontri che spingono Mesa a rassegnare le dimissioni. Oggi Evo Morales incarna la speranza della sua gente.