L’Etiopia sta scivolando sulla “nuova via della seta” e rischia una caduta rovinosa. Negli ultimi 10 anni, da quando nel 2013 il presidente Xi Jinping ha lanciato un piano di investimenti da oltre mille miliardi di dollari per realizzare le infrastrutture globali di un nuovo impero, sotto il cappello della “Belt and Road Initiative (Bri)” il governo cinese ha finanziato e realizzato in Etiopia opere per decine di miliardi di dollari. Una dinamica che ha spinto il debito pubblico etiope oltre i livelli di guardia – secondo le statistiche ufficiali ha superato i 30miliardi di dollari, oltre il 50% del Pil del Paese, ma le stime indicherebbero una cifra molto più elevata – e sta trascinando l’Etiopia verso la bancarotta finanziaria.
Gioiello nazionale della Bri è il nuovo treno Addis-Gibuti, che collega la capitale etiope al porto gibutino di Doraleh, dove la Cina ha impiantato la sua prima base militare continentale e costruito uno scalo multifunzionale, con un’enorme area container e un terminal petrolifero – dallo stretto di Bab el Mandeb, la “Porta delle lacrime”, passa quasi la metà dell’import cinese di petrolio e oltre il 40% del traffico marittimo globale. Realizzata da China Railway Engineering Corporation (Crec) grazie a un prestito di oltre 4miliardi di dollari della Export-Import Bank of China (ExIm), la nuova ferrovia ricalca quella impiantata dai colonizzatori francesi a cavallo tra il XIX e il XX secolo. I muri e gli altoparlanti di stazioni e treni parlano cinese – all’amarico, lingua nazionale etiope, spettano i sottotitoli – in quanto la ferrovia è pensata soprattutto per offrire un canale di sbocco ai tanti imprenditori che dalla Cina hanno delocalizzato la produzione in Etiopia, in cerca di manodopera a costi sempre più bassi.
Ma la lista delle nuove infrastrutture sino-etiopi è lunga, tutte di primaria importanza per il disegno di Xi in Africa orientale. A esempio, c’è l’espansione dell’aeroporto di Bole: 345milioni di dollari finanziati da ExIm a favore di China Communications Construction Company (Cccc), che ha raddoppiato la capacità del principale snodo del traffico aereo africano, fino a raggiungere oltre 25milioni di passeggeri all’anno. Sono cinesi anche i 3miliardi di dollari che stanno finanziando le linee di trasmissione della Grand Renaissance Dam, il più grande impianto idroelettrico africano, costruito sul Nilo azzurro. Così come gran parte dei capitali investiti nell’autostrada che da Addis sta pian piano scendendo verso il confine con il Kenya – finora quasi un miliardo di dollari per i primi 150 chilometri fino a Ziway – ed è destinata a garantire il collegamento con le infrastrutture della Bri keniota e il porto di Mombasa, corridoio commerciale alternativo a quello di Gibuti. Tutte opere affidate a imprese cinesi senza alcuna gara d’appalto e nella massima riservatezza circa le condizioni dei finanziamenti. Elementi imprescindibili per la concessione dei prestiti di Beijing.
Nonostante i tassi d’interesse siano circa il doppio di quelli applicati dalla Banca Mondiale (in media intorno al 4% contro il 2%), la chiave del successo dei finanziamenti cinesi sta nella disponibilità immediata dei fondi, nella velocità di realizzazione delle opere e in una burocrazia quasi inesistente. Un cocktail che però ha spinto l’Etiopia sull’orlo del baratro finanziario. L’agenzia di rating Fitch ha di recente declassato il Paese a livello CCC-, che indica “un bassissimo margine di sicurezza e la possibilità di un default imminente”, sottolineando come “il costo annuo del debito è di quasi 2miliardi di dollari, circa metà di quanto l’Etiopia ricava dalle esportazioni, mentre le riserve di valuta estera sono al collasso e non più sufficienti a coprire neppure un mese di importazioni”. Secondo JPMorgan il rischio della bancarotta finanziaria nel 2023 sarebbe massimo. “L’Etiopia sarà a breve insolvente – spiega Alemayehu Geda, professore di economia all’Addis Ababa University – a meno che i creditori internazionali non si mettano d’accordo per ristrutturarne il debito. Da oltre 2 anni, il governo etiope ne ha fatto richiesta al Common Framework del G20, ma finora non ha ottenuto risposta. Dubito che i creditori occidentali acconsentiranno a una ristrutturazione, se prima non verrà fatta trasparenza sulle condizioni dell’indebitamento nei confronti della Cina”.
Oltre a un terzo del debito ufficiale – poco più di quanto l’Etiopia deve alla Banca Mondiale – la Cina sarebbe infatti creditrice di almeno altri 5miliardi di “debito nascosto”, contratto cioè da compagnie e banche statali o altre imprese partecipate, quindi non inserito nel bilancio diretto dello Stato nonostante goda di copertura finanziaria pubblica. A spiegarlo è il rapporto “Banking on the Belt and Road” di AidData, che ha provato a ricostruire la finanza occulta cinese. “Da quando nel 2013 è stata avviata la Bri – spiega Bradley Parks, direttore esecutivo del centro di ricerca statunitense – Beijing sta usando il debito per ottenere una posizione dominante sul mercato finanziario. A livello globale, quasi il 70% dei prestiti concessi dalla Cina negli ultimi 10 anni non risulta nelle statistiche ufficiali della Banca Mondiale, in quanto i governi centrali ne sono responsabili solo in via indiretta. Un debito nascosto stimato in 385miliardi di dollari. Mentre finanziava progetti sempre più faraonici, concedendo crediti sempre più rischiosi, Xi ha però imposto ai debitori condizioni collaterali sempre più stringenti”.
Nel caso del debito etiope, la Cina – fedele alla sua politica di negoziazioni bilaterali – avrebbe chiesto di utilizzare “mezzi alternativi” di pagamento. È quanto racconta uno dei quotidiani più autorevoli in Etiopia, The Reporter, secondo cui “durante la visita a Beijing di fine febbraio, il ministro delle Finanze, Ahmed Shide, ha accettato una serie di swap finanziari, oltre ad accordare un incremento dell’esportazione di materie prime e nuove concessioni agli investitori cinesi”. Il rischio è che per le grandi opere sino-etiopi si possa ripetere quando avvenuto in Sri Lanka per il porto di Hambantota o in Laos per la ferrovia che collega la capitale Vientiane con la provincia cinese dello Yunnan: infrastrutture che la Cina ha prima finanziato e realizzato, ma di cui più tardi, quando i debiti si sono mostrati insostenibili, ha ottenuto la proprietà al 70% e una concessione esclusiva per 99 anni.
Ad Addis Abeba le compagnie statali cinesi sono ormai leader indiscusse nel settore delle costruzioni, in cui hanno scalzato soprattutto imprese italiane come Impregilo. Oltre all’aeroporto e alla stazione principale della nuova ferrovia per Gibuti, le imprese di Beijing hanno realizzato anche una metropolitana di superficie (475milioni da ExIm a favore di Crec), la nuova sede della Commercial Bank of Ethiopia (il più alto grattacielo di tutta l’Africa orientale, realizzato da China State Construction Engineering Corporation con 300milioni finanziati sempre da ExIm) e alcuni dei più imponenti progetti immobiliari, come la “rigenerazione” da oltre 3miliardi di dollari che Cccc sta portando avanti nel quartiere di Gotera.
Ben attento alla gestione del suo enorme soft power, nel pacchetto etiope oltre ai prestiti commerciali Xi ha inserito anche qualche “aiuto allo sviluppo”. È il caso del progetto “Beautyfing Sheger”, voluto dal premier Abiy Ahmed per cambiare il volto della capitale. Un miliardo di dollari spesi soltanto nella prima fase appena conclusa, finanziata quasi per intero da China Aid. Tra le opere principali del progetto c’è il “Friendship Park”, simbolo della fiorente alleanza politico-economica tra i due Paesi. Il parco è stato realizzato da Cccc sull’area dove sorgeva la baraccopoli di Erii Bekentu – alla lettera, “se urli nessuno ti sente” – ormai sepolta sotto aiuole fiorite e giostre colorate. Unica traccia rimasta degli abitanti, la lunga fila di tende arrangiata a margine del cantiere da alcune delle tante famiglie finite a vivere in mezzo alla strada per far spazio all’opera. Ai lati del parco sono state inoltre costruite la Abrehot Library, una splendida biblioteca di sette piani, e lo Science and Technology Museum, edificio futuristico simile a un’astronave atterrata di colpo sulle colline della città. Completa la nuova area turistica, lo Unity Park, un altro parco-zoo allestito dove sorgeva il Ghebi, la cittadella imperiale di Menelik II e di ogni successivo reggente etiope. Opere esclusive – il costo del biglietto d’ingresso ai parchi è inaccessibile per la stragrande maggioranza della popolazione locale – che se da un lato stanno migliorando l’estetica della capitale, dall’altro hanno un altissimo costo sociale, come dimostrano le file sempre più consistenti dei diseredati cittadini.
Già oggi la stragrande maggioranza della popolazione etiope sopravvive per miracolo. Il livello salariale è tra i più bassi del mondo – un professore universitario o il primario di un ospedale pubblico guadagnano intorno ai 20mila birr al mese, poche centinaia di dollari – mentre il tasso d’inflazione ha superato il 50%, rendendo carne e latte beni di lusso. Per favorire le esportazioni, il governo continua inoltre a svalutare il birr – l’Etiopia è tra i pochi Paesi ad autogestire il tasso di cambio della propria valuta, nonostante le ripetute raccomandazioni del Fondo monetario internazionale di passare a un meccanismo di mercato – che ha raggiunto un rapporto con il dollaro di oltre 100 a 1 sul mercato nero, contro un tasso di cambio ufficiale pari a 54.
A complicare la situazione finanziaria del Paese, i 2 lunghi anni di guerra civile nella regione settentrionale del Tigrai. Oltre al tragico bilancio umanitario ed economico, il conflitto ha contribuito a incrinare i rapporti con gli Stati Uniti, portando tra l’altro alla sospensione dell’Etiopia dai beneficiari dell’Africa Growth and Opportunity Act (Agoa), il sistema di tariffe preferenziali che permetteva ai nuovi parchi industriali tessili etiopi – anch’essi finanziati e realizzati dai cinesi – di essere competitivi sul mercato statunitense. La sospensione dall’Agoa ha causato l’esodo di quasi tutte le aziende che avevano delocalizzato in Etiopia, tra cui il gigante statunitense Pvh, azienda proprietaria tra gli altri dei marchi Calvin Klein e Tommy Hilfiger, e l’italiana Calzedonia. Dopo gli accordi di pace firmati lo scorso novembre a Pretoria, il governo etiope ha rimosso i ribelli tigrini dalla lista delle “organizzazioni terroristiche” e nominato il loro portavoce, Getachew Reda, alla guida del nuovo governo ad-interim in Tigrai. Non abbastanza affinché gli Stati Uniti togliessero le sanzioni. Se a febbraio Washington ha ripristinato il proprio ambasciatore, durante una recente visita al parco industriale di Hawassa, il più importante dell’Etiopia, la nuova incaricata Tracey Jacobson ha spiegato che “per essere riammesso nell’Agoa, il governo etiope deve consentire un’indagine indipendente sulle violazioni dei diritti umani commesse nel corso della guerra civile”. Richiesta appoggiata da oltre 60 organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty International e Human Rights Watch, ma che continua a essere osteggiata da Abiy, premio Nobel per la pace nel 2019.
Se i parchi industriali non ripartiranno al più presto, evitare la bancarotta sembra una missione impossibile. Un’eventualità che non spaventa soltanto gli etiopi. Oggi sono decine i Paesi coinvolti nella Bri a rischio default il cui debito con la Cina supera il 10% del Pil. L’eventuale bancarotta dell’Etiopia rischia di innescare un effetto domino in grado di portare con sé l’intero modello di sviluppo globale cinese. Per evitare questo scenario, le banche cinesi sarebbero impegnate in un programma massiccio di salvataggi: secondo uno studio congiunto di Banca Mondiale, AidData, Harvard Kennedy School e Kiel Institute for the World Economy, tra il 2008 e il 2021 la Cina avrebbe concesso circa 240miliardi in fondi d’emergenza ai Paesi più in difficoltà tra quelli coinvolti nella Bri. “Una pratica finanziaria ad alto rischio – spiegano gli autori dello studio – che può avere successo solo quando il debitore fronteggia una crisi di liquidità di breve periodo, ma che si rivela disastrosa se al contrario l’insolvenza è dovuta a problemi di lungo termine”.