Quando incrociamo il sorriso invitante di Wendemu e Asgede, il sole è già alto e bollente. Fradici di sudore e con le gambe dure, discendiamo da un pezzo l’aspra e remota valle in cui si nasconde il villaggio di Gunda Gunde. I due giovani etiopi sono agronomi dell’Università di Mekelle, inviati per l’ennesima volta tra queste gole spigolose con il compito di raccogliere campioni di suolo, acqua e piante che poi dovranno esaminare in laboratorio. Da buoni scienziati cercano di venire a capo di un mistero: la straordinaria qualità delle arance prodotte in questo angolo remoto del nord-est del Tigray, a pochi chilometri dal confine con l’Eritrea. Una zona ribattezzata “piccolo Tibet” dallo studioso Paul Henze, in omaggio alla bellezza e al mistero di queste montagne fiabesche, baluardo dell’altopiano etiope che poco più a oriente precipita nella grande depressione della Dancalia.
La spedizione cui abbiamo la fortuna di unirci è partita da Geblen, ultimo villaggio della regione raggiungibile in macchina. I 1200 metri di dislivello che ci separano dalla meta finale possono essere percorsi soltanto a piedi. Un cammino che una persona ben allenata può sbrigare in cinque ore, ma che può rivelarsi interminabile per chi lo prendesse sottogamba. Quando finalmente raggiungiamo i 300 abitanti di Gunda Gunde, il sole è tramontato da un pezzo. Ad attenderci troviamo una generosità sconfinata: un pentolone ripieno d’acqua, spezie e farina di ceci -ingredienti base del tradizionale shiro- viene messo subito a bollire su un fuoco di legna, mentre un ragazzo sistema alcune stuoie lungo la veranda di casa sua. La volta delle stelle è talmente bella da rendere sopportabile anche la dura pietra su cui abbandono il corpo esausto.
Per convincere il mio amico Paolo ad avventurarsi con me in questa valle non è bastata la promessa di una spremuta eccezionale. Siamo qui per visitare un antico monastero, che nel XV secolo fece da culla al movimento religioso degli Stefaniti, e che ancora oggi custodisce preziose antichità. Estifanos, fondatore del movimento, trascorse la sua giovinezza tra queste montagne lavorando come pastore. A 19 anni venne ordinato diacono, ma deluso dal malcostume diffuso tra gli altri monaci ortodossi decise presto di formare un proprio ordine: 70 anni prima della nascita del Protestantesimo, diede vita a un movimento di riforma tra i cristiani. Predicava una vita di austerità e condivisione, in completa indipendenza dal mondo esteriore. Praticava grande tolleranza non solo con i cristiani ortodossi, ma anche nei confronti dei mussulmani. Trovava strana la venerazione esasperata per la vergine Maria. La sua interpretazione delle sacre scritture gli costò però la persecuzione. Neppure la prigione e le torture lo convinsero a inginocchiarsi di fronte all’imperatore etiope, perché “la prostrazione è un gesto dovuto soltanto a Dio”. Morì in una prigione nel 1447, e venne poi bruciato in pubblica piazza. Anche i monasteri degli Stefaniti subirono le fiamme del clero ortodosso, mentre i discepoli che gli rimasero fedeli vennero incarcerati e uccisi. La persecuzione del movimento continuò per tutto il XVI secolo, fino a quando l’ordine non venne riassorbito con violenza dalla chiesa ortodossa etiope. Ma le idee di Estifanos sopravvissero, garantendo agli Stefaniti un posto nella storia religiosa dell’Etiopia. Gunda Gunde divenne un luogo mitico, custode della memoria del movimento: ancora oggi all’interno del monastero sono conservati 219 manoscritti -soprattutto Vangeli, storie bibliche e vite dei santi Stefaniti- oltre a ricche miniature e dipinti, che risalgono tutti a prima del XVI secolo. Li ha fotografati Ewa Balicka dell’Università di Uppsala, inviata qui dieci anni fa dall’Hill Museum and Manuscript Library. Antonio Mordini invece nella sua spedizione tra gli aranci del 1953 aveva contato ben 800 documenti.
A differenza delle altre basiliche del Tigray, scavate nella roccia tra i picchi delle montagne, la chiesa di Maryam Gunda Gunde si trova in fondo a una serie di gole. Per raggiungerla occorre seguire fino al termine della sua corsa il letto in secca di un torrente, che durante la stagione delle piogge alimenta le arance e le altre coltivazioni locali. Prima d’incamminarsi è però necessario il nullaosta degli abitanti del villaggio. A sorpresa, le stesse persone che ci hanno sfamato e ospitato il giorno precedente, ora non sembrano disposte ad accordarci il permesso di proseguire. Mentre ci disperiamo all’idea di avere fatto tanta strada senza poter nemmeno vedere il profilo della basilica, s’avvicina un uomo avvolto in un mantello. Tra il copricapo piatto e la fitta barba bianca spuntano due occhi brillanti e affilati: sono quelli di Abba Lemlem, leader della congregazione che oggi popola il monastero di Gunda Gunde. Occhi che dopo averci interrogato lo convincono ad accompagnarci a destinazione.
L’emozione e la stanchezza, unite al delizioso tej -un liquore di miele tipico dell’altopiano etiope- che ci viene servito senza pausa in piccole otri di vetro soffiato non appena raggiungiamo il monastero, mi spingono in una sorta di trance mistica. Dimentico i manoscritti, i dipinti e le miniature. Dimentico il mio mestiere di fotografo. Non posso far altro che rimanere sospeso di fronte allo scorrere degli eventi, osservatore rispettoso di una regia “altra”. Alcuni monaci ci fanno accomodare all’ombra di una tettoia di legni intrecciati. Ad accompagnare il tej, ci porgono una cesta di paglia ripiena di besso, un impasto di farina d’orzo e spezie che va lanciatonella bocca per non essere sprecato. Seduto al mio fianco c’è un vecchio monaco sdentato, che non smette di ridere davanti ai miei tentativi maldestri e ubriachi di mangiare il besso, e che infine s’addormenta sulle mie gambe. Paolo intanto studia i gesti di un altro monaco, che sta tostando parte del caffè portato con noi come omaggio alla congregazione. Di colpo Abba Lemlem c’invita ad alzarci: un capretto è stato sacrificato per festeggiare il suo ritorno (o il nostro arrivo?), e il resto della congregazione c’attende per dare inizio al pasto. La testa dell’animale è conficcata per le corna tra le pietre di una parete. Dal collo cola sangue fresco. Il tej, come il sangue del capretto, continua a scorrere. Il monaco che taglia la carne bollita non smette di offrirmi i bocconi migliori. Con lo sguardo cerco gli occhi di Abba Lemlem, come fossero l’unica bussola rimasta a disposizione. Lui però mi guarda solo quando non lo faccio io. Prima di perdere i sensi ho un ultimo pensiero, quasi un peccato di presunzione: il segreto delle arance di Gunda Gunde forse è proprio qui, tutt’intorno a me.
Le arancee studiate all’università
All’Università di Mekelle, città principale della regione del Tigray, gli esperimenti per trapiantare le straordinarie arance di Gunda Gunde continuano a rivelarsi un fallimento. “Sono anni che lavoriamo per estendere la produzione di questa qualità – racconta Asgede, uno dei ricercatori che cura il progetto – ma in nessun altra zona d’Etiopia le arance crescono così grandi, dolci e succose. Continuiamo a studiare il fenomeno, ma ancora non siamo venuti a capo di questo mistero”.
Come tutti gli altri prodotti di Gunda Gunde (banane, papaie, pomodori) destinati al mercato di Adigrat – la città più vicina – le arance devono risalire la valle a dorso d’asino fino a Geblen. Da lì proseguono su piccoli camioncini stracarichi, che avanzano traballanti tra le buche e la polvere delle sterrate locali. Nel succo di questi frutti è nascosto un vademecum di agronomia in ambiente estremo: il terreno arabile viene conservato con cura e ricavato anche dalle montagne; l’acqua è razionata con un sistema di canalizzazione basato su piccoli impianti a cascata; i campi per le coltivazioni sono tutti terrazzati su una base di pietre e recintati con barriere di cactus che li proteggono dal pascolo. A osservarle con attenzione, le vite di questi contadini -costretti a razionare il cibo con cura perché sia sufficiente a dare sostento anche nelle ultime settimane prima del nuovo raccolto, o a camminate stoiche per poter raggiungere scuole e ospedali pubblici- somigliano a quelle dei santi Stefaniti raccolte nei manoscritti custoditi nel monastero di Gunda Gunde.