Riconoscere un artista non è semplice. Quando lo si cerca lontano dai circuiti tradizionali, volgendo lo sguardo verso segni e graffi affidati a un muro o all’etere di una piazza, l’impresa si fa ancor più ardua. Se si sceglie inoltre d’indagare tra malati psichiatrici e senza dimora, la ricerca può trascendere in una missione. Negli ultimi 4 anni, Gustavo Giocosa ha camminato il mondo col passo quieto e l’attenzione rivolta alla periferia dello sguardo, sulle tracce del “matto del villaggio”. Danzatore e attore argentino, da circa 20 anni integra la compagnia teatrale di Pippo Del Bono, dove ha trovato ispirazione per la sua indagine sul rapporto tra follia e arte visiva. L’esposizione “Noi, quelli della parola che sempre cammina” – prima tappa lo scorso settembre alla Commenda di Pré a Genova – è il tentativo di restituire l’identità sociale d’artista a chi, per la sua condizione di disagio, è stato messo ai margini.
“Ricordo Aziz Fulani è la sua calligrafia cufica dal carattere arrotondato di una goccia, disegnata con gessetti su muri e stradine della casbah di Fez; Sasà e la sua ossessione per ‘l’assorbimento elettrico di puzze velenose’, proiettata sui muri del quartiere Forcella a Napoli; Marthia Pasquali, ‘a louca’, con le sue pagine di racconti di vita appese agli alberi o ai cancelli di Rua Higienopolis a San Paolo; i poemi e lacrime che Aldo Bortolotti disegnava sui volti delle statue e dei manifesti pubblicitari di Reggio Emilia”. Quando si ferma per “svuotare il sacco dei tesori accumulati”, Gustavo decide però di concentrarsi solo un ristretto gruppo di autori, “che annovera un corpus importante di opere grafiche, nel quale possiamo riscontrare un lavoro seriale e una ricchezza espressiva che spesso oltrepassa la manifestazione murale, spingendosi all’utilizzo di altre tecniche artistiche come il disegno su carta, il ricamo e la perfomance. Non soltanto manifestazioni sporadiche di un talento contrassegnato dal disagio psichico, ma una qualità artistica che sgorga continuamente con rinnovata autenticità”.
Per l’esposizione di Genova, Giocosa sceglie 6 artisti: Babylone, Melina Riccio, Helga Goetze, Carlo Torrighelli, Oreste Fernando Nannetti e Giovanni Bosco. Il primo è un senza dimora di Mamoudzou, capitale della principale isola delle Comore, che va in giro con un cartone in una mano e un pezzo di carbone nell’altra, graffitando con una complessa logica spaziale e un carattere che ricorda le tavole scolastiche coraniche. Melina, che con Babylone è l’unica artista ancora in vita, dopo lunghi trascorsi in diversi reparti psichiatrici è rifiorita proprio tra i vicoli genovesi. La si può incontrare armata di tutto punto – vernice, colla, pennelli, ritagli di giornale e cartoncini vari – mentre si dirige verso uno dei suoi “cantieri”: ore di lavoro, e un vecchio muro scrostato o un anonimo secchione della spazzatura si trasformano nell’allegro delirio delle sue forme e del suo tratto semplice. Si definisce “la prima donna che è tornata vergine come la Madonna”, e promette “GRATIS SALVO TUTTI”.
Per gli altri 4 autori scelti da Gustavo, l’esposizione è un riconoscimento postumo. L’artista tedesca è stata per 20 anni anima della Breitscheidtplatz di Berlino, dove davanti alla chiesa di Gedachtniskirche inneggiava al libero amore, accompagnando i suoi comizi con centinaia di quadri a ricamo in cui è tessuta la sua mitologia del desiderio. Bosco è un pastore siciliano, con trascorsi in carcere e in diversi ospedali psichiatrici: “dottore di tutto”, come si definiva per gioco, dipingeva pupazzi o arti smembrati, che affollava di numeri e lettere con una trama simile a quella delle partiture musicali. Torrighelli, senza dimora milanese, affidava il suo messaggio anarchico a marciapiedi, cartelli di legno e piccoli biglietti manoscritti che attaccava ai muri. “Non conosci le pene degli altri perché hai la vita comoda sugli altri”, scriveva. Nei suoi comizi per le piazze di Milano, era centrale il tema delle “onde assassine” – divenuta poi una leggenda metropolitana – con cui il clero avrebbe torturato e ucciso i poveri Cristo come lui. Nannetti, nome di battaglia “Nanof, scassinatore nucleare”, ha trascorso la vita trasferendosi da un ospedale psichiatrico all’altro. In quello di Volterra, ha inciso con la fibbia del panciotto un’Odissea fatta di voli spaziali, collegamenti telepatici, luoghi immaginari e personaggi poetici, che s’arrampica come edera sui 180 metri di muro del cortile. L’opera è ormai in disfacimento ma ne rimane una dettagliata documentazione fotografica.
“‘Le parole che sempre camminano’ – spiega Gustavo – sono creazioni non veicolate dai circuiti di diffusione e commercializzazione dell’arte. Potrebbero aderire a molteplici correnti artistiche: art brut, land art, pop art, performance, poesia concreta e altre ancora. Tuttavia esse rappresentano un margine dentro il margine di ognuna di queste, sfuggendo a una completa appartenenza. Infrangono i luoghi comuni del graffitismo ‘istituzionalizzato’, in quanto rischiosa sfida ai limiti del consentito, o dell’art brut, dove le opere ammesse devono maturare nel riparo ‘del silenzio, della solitudine e del segreto’. Esse si propongono come opera aperta e gratuita condivisione di un’esposizione che sorge esplicitamente da un limite per infrangerlo”.