Ricordare l’anniversario di uno dei più gravi disastri industriali della storia – la notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984, nella città indiana di Bhopal, una nube tossica si sprigionò dagli impianti della fabbrica di pesticidi statunitense Union Carbide uccidendo migliaia di persone – dovrebbe essere un monito per scongiurare la possibilità che eventi simili si ripetano ancora. Ma a Bhopal il 35simo anniversario del disastro ricade all’interno di una tragedia ancora in corso.
Nessuno sa con precisione quante persone morirono quella notte. Il governo indiano, che al principio parlava di 3mila vittime, oggi ne conta ufficialmente 5295. Ma in via ufficiosa ne ammette oltre 15mila. Secondo le stime di Amnesty International sarebbero tra 7 e 8mila soltanto quelle che hanno perso la vita nelle prime 72 ore, cui vanno aggiunti almeno altri 20mila morti per gli effetti del gas tossico negli anni successivi. Oltre mezzo milione di persone sopravvive oggi in condizioni disperate, affetto da cronici problemi all’apparato respiratorio, immunitario, neurologico, riproduttivo e intestinale.
Se ciò non fosse abbastanza, i sopravvissuti continuano a doversi battere anche contro ogni sorta di ingiustizia. Il sito del disastro non è ancora stato decontaminato e le sostanze tossiche sono percolate nel terreno raggiungendo la falda acquifera, diffondendosi così in un’area molto più vasta di quella colpita dal gas. Secondo i dati pubblicati in occasione del World Environmental Day 2019 dalla Sambhavna Clinic – una fondazione che fin da principio offre terapie e medicine alle vittime e si impegna affinché possano avere giustizia – la contaminazione ha raggiunto quasi 50 comunità, popolate da centinaia di migliaia di persone. Grazie all’impegno inesauribile degli attivisti, la Corte Suprema indiana ha ordinato più volte che le aree colpite venissero rifornite con acqua potabile. Ma ancora oggi gli abitanti sono spesso costretti a pompare l’acqua di falda in mancanza di risorse idriche alternative.
Quanto al processo, fin dall’inizio il governo indiano si è arrogato il diritto a essere unico rappresentante giuridico delle vittime. Al principio ha chiesto un risarcimento di 3,3miliardi di dollari, ma nel 1989 si è poi accordato con la Union Carbide per 470milioni, liquidando ogni responsabilità criminale della compagnia. Nonostante le prove dell’utilizzo di tecnologie inferiori e meno sicure rispetto a quelle installate nelle filiali statunitensi, dei tagli sulle misure e sul personale di sicurezza, non è stata riconosciuta alcuna colpa a Warren Anderson, proprietario e dirigente generale della Union Carbide. Tutto grazie a un enorme giro di tangenti, svelato da Wikileaks nell’aprile del 2011. Mai estradato in India per affrontare il processo, nel 2014 Anderson è morto ultranovantenne nella sua casa su una spiaggia della Florida.
Per i danni subiti, ciascuna delle 5mila vittime riconosciute dal governo indiano ha ricevuto invece 25mila rupie (ai tempi circa 2mila dollari). Da allora gli attivisti si battono affinché il numero degli aventi diritto alla compensazione monetaria e l’ammontare della stessa vengano riconsiderati. Ma Dow Chemical, che nel 2001 ha acquistato la Union Carbide e nel 2017 si è fusa con DuPont formando un colosso da 130miliardi di dollari, si è sempre rifiutata di riconoscere ogni responsabilità nella vicenda. Lo scorso aprile, la Corte Suprema indiana avrebbe dovuto finalmente accogliere le richieste delle associazioni delle vittime circa l’inadeguatezza dei risarcimenti. Ma uno scandalo interno alla stessa Corte – il presidente Ranjan Gogoi è accusato di molestie sessuali da una sua assistente – ha lasciato la causa in un nuovo limbo.
In questo dramma senza fine continuano a entrare personaggi degni del teatro dell’assurdo. Da dicembre 2018, Arif Aqueel è il nuovo ministro per “il conforto e la riabilitazione della tragedia del gas di Bhopal”. Noto come “il Leone di Bhopal”, Aqueel è un politico del Congress che gira attorno a questa vicenda da oltre 20 anni, con un atteggiamento che ricorda più l’avvoltoio che il leone. Anche stavolta in campagna elettorale aveva fatto grandi promesse ai sopravvissuti – compensazioni monetarie, assistenza sanitaria gratuita, posti di lavoro e così via – ma da quando è entrato in carica si è sempre rifiutato anche solo di riceverne i rappresentanti. Denunciato dalle associazioni delle vittime, lo scorso luglio Aqueel ha chiesto al ministro delle Finanze di avviare un’indagine sui finanziamenti esteri grazie a cui le stesse associazioni garantiscono ai sopravvissuti l’assistenza negata dallo Stato. Il suo predecessore, Vishvas Sarang – un fanatico induista del Bjp, che avrebbe dovuto “confortare” le vittime, quasi tutte mussulmane – era finito sotto accusa per malversazione dei fondi destinati ai sopravvissuti.
Abbandonato a sé stesso, il sito dismesso dalla Union Carbide anno dopo anno viene rosicchiato dalla ruggine e ricoperto dalla vegetazione. Le cadenti mura esterne sono violate ogni giorno da pastori che accompagnano a brucare le proprie capre e da gruppi ragazzini che non trovano altri spazi per giocare a cricket. La distesa di terra brulla e polverosa su cui corrono e strillano felici ospitava le vasche per l’evaporazione di alcuni scarti di produzione ed è il punto più contaminato in assoluto. Il governo del Madhya Pradesh – lo Stato indiano di cui Bhopal è capitale – vorrebbe aprire l’area della ex-fabbrica al pubblico, farne un memoriale, una sorta di attrazione turistica. Il progetto di un archi-star di Delhi comprende vetrine espositive, calchi in ferro delle vittime, torri d’avvistamento e gallerie per fare shopping. Si vorrebbe fare il verso ai ragazzini, che giocano come se niente fosse. Anche le associazioni delle vittime pensano che il sito industriale dovrebbe diventare un memoriale: “una volta decontaminata – mi dice Sathyu, il direttore della Sambhavna Clinic – l’area dovrebbe essere conservata così com’è. Qualcosa di simile a quanto fatto in Europa con i campi di concentramento nazisti”.