Da sempre imprescindibili per ogni spedizione che ambisca a raggiungere le vette dell’Himalaya, oggi gli sherpa sono finalmente protagonisti assoluti delle scalate. Se nel 1953, quando l’uomo raggiunse la cima dell’Everest per la prima volta nella storia, Tenzin Norgay era ridotto al ruolo di accompagnatore del neozelandese Edmund Hillary, oggi Nirmal Purja e Kami Rita Sherpa sono le nuove celebrità dell’alpinismo globale. Nel 2019, il primo ha conquistato in una sola stagione tutte le 14 vette sopra gli 8mila metri, mentre il secondo è arrivato in cima all’Everest per la 24esima volta nella sua vita. Due imprese senza precedenti.
Ma gli sherpa hanno ormai acquisito un ruolo di primo piano anche nel business del turismo di alta quota. Se per tutto il 20esimo secolo scalare le vette himalayane era un’impresa riservata agli alpinisti più esperti, da qualche anno si è infatti trasformata in un’avventura per turisti facoltosi. Un settore in continua crescita, in cui Nirmal Purja ha fondato la Elite Himalayan Adventures, mentre Mingma Sherpa è presidente di Seven Summit Trek, un’agenzia per cui lavorano Kami Rita Sherpa e tante altre guide di fama mondiale. Aziende che operano nel solco tracciato dalle compagnie straniere, che finora avevano gestito il mercato in esclusiva. Per questa primavera, a esempio, la Seven Summit ha messo sul mercato una versione “VVip” della scalata dell’Everest, che per 130mila dollari a partecipante offre, tra gli altri confort, “letto king-size, doccia calda, cibo di lusso” ma soprattutto “bombole d’ossigeno senza limiti”. La Elite promette invece “scalate su misura” e non si limita a offrire servizi alle persone: lo scorso novembre, ha portato una spedizione in vetta all’Ama-Dablam, da dove è stata srotolata una bandiera del Kuwait lunga 100 metri per 30, del peso di 150 chilogrammi.
Imprese e lussi che pesano soprattutto sulle spalle dei portatori locali, gli “sherpa”, come vengono chiamati anche quando provengono da altre popolazioni come rai, tamang o gurung (gli Sherpa, il “popolo dell’Est” – in tibetano, pa significa “gente”, mentre sher o shar vuol dire “Oriente” – sono invece il gruppo più numeroso del Solukhumbu, la regione in cui s’innalza l’Everest). Sono loro infatti a preparare i percorsi lungo cui avanzeranno gli scalatori, sistemare corde e scale di sicurezza, montare i campi e cucinare i pasti, caricare cibo e attrezzatura. Se per i turisti che si avventurano in alta quota il rischio di morire si è molto ridotto – grazie soprattutto a un uso sempre più massiccio di steroidi e bombole d’ossigeno, che aiutano a scongiurare edemi celebrali o polmonari – per i portatori, che devono trasportare anche le bombole, è invece aumentato: il tasso di mortalità tra quelli che sono stati impiegati nelle scalate dell’Everest dal 2004 a oggi è 12 volte superiore a quello dei soldati che hanno partecipato alla guerra in Iraq tra il 2003 e il 2007. Al mondo non esiste altra industria con un tasso di mortalità così alto (1,2%) tra i suoi lavoratori.
Nonostante la tragica serie di incidenti che continua a segnare la storia delle scalate – secondo Himalaya Database, l’archivio che raccoglie i dati sulle spedizioni dal 1905, soltanto nel tentativo di raggiungere la vetta dell’Everest hanno perso la vita quasi 300 scalatori (oltre un terzo erano sherpa) – l’orda di turisti che assedia le montagne più alte del mondo è sempre più numerosa a ogni nuova stagione. Nel 2019, a esempio, il ministero del Turismo nepalese ha registrato la cifra record di 381 spedizioni dirette in cima all’Everest. Così la professione di portatore è divenuta sempre più comune in Nepal, dove anche chi possiede un’istruzione ha poche alternative lavorative. Nei loro doko – grandi ceste sistemate dietro le spalle e ancorate alla fronte con una lunga fascia – gli sherpa trasportano tutto ciò che serve ad alimentare il turismo himalayano, settore principale dell’economia nazionale. Uomini, donne e ragazzini pagati in base al peso che sono disposti a caricare. Spesso più di quanto sopporterebbe un mulo.
Il servizio che offrono è così a buon mercato – 5 dollari al giorno per un load da 20 chilogrammi – che spesso capita di vederli impiegati anche per le strade della capitale, Kathmandu. Sopra i 5mila metri però il trasporto di un load vale 100 dollari al giorno, che diventano 200 per chi è disposto a spingersi oltre gli 8mila metri. Cifre che fanno gola a molti in un Paese dove il Pil pro capite non supera i 1000 dollari all’anno. Chi vanta già un’esperienza tale da aspirare al ruolo di guida, sa di poter guadagnare fino a 5mila dollari per accompagnare una spedizione in cima all’Everest. Denaro sufficiente a comprare una casa nel proprio villaggio. Una prospettiva tale da assicurare a ogni nuova stagione di scalate un numero più che sufficiente di uomini disposti a rischiare la propria vita.
Quando vengono impiegati in alta quota, gli sherpa devono andare avanti e indietro lungo i tratti più pericolosi delle scalate. Sull’Everest, a esempio, sono costretti ad attraversare ripetutamente la terribile “cascata di ghiaccio del Khumbu”, una parete da cui si staccano spesso enormi blocchi congelati. Se i turisti si fermano in questo tratto della scalata il minor tempo possibile, alcuni sherpa sono invece incaricati di fissare corde e scale, un’operazione che può richiedere anche un’intera giornata. Per il loro coraggio sono soprannominati “Icefall doctors”, i dottori della cascata di ghiaccio. Un’impresa costata la vita a tanti, troppi, di loro.
Nel 2014, a esempio, la “cascata” ha sepolto 16 portatori in una sola volta, causando la più grave tragedia nella storia delle scalate dell’Everest. Un record purtroppo superato l’anno successivo a causa del terribile terremoto che ha devastato il Nepal, provocando una valanga che abbattendosi sul campo base ha sepolto 17 scalatori, tra cui 7 sherpa. Il governo nepalese, che incassa 11mila dollari da ogni turista solo per il permesso di scalare la montagna, ha offerto 400 dollari come risarcimento per ciascuna vittima. Una cifra che ha scatenato la rabbia dei portatori e innescato uno sciopero generale della categoria, che rivendica migliori condizioni assicurative in caso d’infortunio e un trattamento più equo. Tutte le spedizioni alpinistiche previste per quella stagione sono state annullate. Ma già l’anno successivo il business è ripreso come niente fosse. Le ripetute promesse del governo di una “nuova politica”, che consenta soltanto ad alpinisti esperti di avventurarsi in cima alle montagne, finora sono rimaste incompiute.
Ottomila metri da ripulire
Anche lo smaltimento dell’enorme quantità di rifiuti disseminati lungo il sentiero per la vetta dell’Everest è affidato agli sherpa. Dal 2014 il governo nepalese ha stabilito che ciascun scalatore debba riportare con sé a valle 8 chilogrammi di spazzatura, pena la perdita di un deposito di 4mila dollari. Ma in realtà il compito è svolto dai portatori locali. Ogni anno, alcune squadre vengono incaricate di recarsi al Campo 2 (6400 metri) e da lì si alterneranno sul Campo 4 (7950 metri), dove trascorrono periodi di 15 giorni raccogliendo i rifiuti disseminati dalle spedizioni della stagione precedente.
Altra ingrata impresa affidata agli sherpa è lo smaltimento delle 12 tonnellate di escrementi umani prodotte in media ogni stagione di scalate. Raccolte in botti di plastica blu – inizialmente attrezzate con una comoda seduta – le feci dei turisti vengono scaricate dai portatori nel letto ghiacciato di un lago in secca noto come Gorak Shep. Una pratica che nel tempo ha compromesso una delle 2 sorgenti di acqua potabile adiacenti al sito di smaltimento. Per far fronte al problema, Gary Porter, un ingegnere in pensione appassionato di alta montagna, sta cercando di promuovere il progetto “Mount Everest Biogas”, in collaborazione con le università di Seattle e Kathmandu: grazie a un sistema combinato di digestori anaerobici e pannelli solari – in grado di mantenere anche ad alta quota la temperatura necessaria alla sopravvivenza dei microrganismi responsabili della digestione – il progetto promette di trasformare gli escrementi degli scalatori in metano ed energia elettrica da mettere a disposizione delle guest-house locali.