La fermata non è segnalata. Per capire dove aspettare il “taxi” occorre cercare gli altri aspiranti passeggeri. Davanti all’Admas bar, un’antica palazzina in stile armeno con un magnifico tetto in lamiera decorata, c’è un gruppetto che sembra fare al caso mio. “Piassa?”, domando a un’enorme signora vestita di bianco. Lei si mette a ridere, porta una mano davanti la bocca e poi sembra annuire con gli occhi. Il primo furgoncino arriva un minuto più tardi. Un ragazzino spunta fino alla cintola dal finestrino del mezzo in corsa. Non avrà neppure dieci anni ma si comporta già come un lavoratore esperto. Strilla di continuo la destinazione, fin quando capisce che nessuno sul marciapiede sembra interessato al suo invito. Allora da un colpo deciso sullo sportello del pulmino che riparte a tutto gas. In appena 5 minuti passano altri quattro taxi. L’ultimo è quello che il mio gruppetto sta aspettando. Quando il grido “Piassa” ci raggiunge, l’aria intorno a me si fa di colpo frenetica. Gli aspiranti passeggeri devono provare ad anticipare il punto esatto in cui il mezzo si fermerà e raggiungerlo prima degli altri. Con un colpo di fortuna il taxi si arresta proprio davanti a me, che spaesato sono rimasto immobile in attesa degli eventi. La porta scorrevole si apre, ma invece di salire a bordo fulmineo faccio l’errore di chiedere conferma della destinazione. In un istante, la signora in bianco mi riversa addosso tutto il suo peso scalzandomi con una spallata. Quando riprendo l’equilibrio, lei è lì ad aspettare che l’aiuti a salire. Peserà più di cento chili, così mentre la spingo dal basso il woyala – il ragazzino che si occupa di “invitare” a bordo nuovi passeggeri e di raccogliere tra loro la tariffa delle rispettive corse – deve tirarla dall’alto. Avvolto in una lunga tonaca scura, un prete ortodosso approfitta della situazione per aprirsi a gomitate un varco, in cui il resto del gruppo s’infila compatto. Quando riesco finalmente a riguadagnare l’entrata, i posti a sedere sono ormai esauriti. Senza troppe smancerie il ragazzino mi sbatte la porta in faccia e il taxi riparte coprendomi di polvere.
I “blue donkeys”, come vengono chiamati dagli stranieri i furgoncini Toyota HiAce blu e bianchi che affollano le strade di Addis Abeba, sono il principale mezzo di trasporto pubblico della capitale. Una rete informale composta da migliaia di taxi indipendenti, che funziona senza mappe né orari ufficiali e non risponde ad alcun tipo di coordinamento centralizzato. Un sistema caotico ma in grado di adattarsi alla circolazione di una città in continuo cambiamento, dove ogni giorno una strada viene chiusa per aprire un nuovo cantiere. Le fermate per il carico/scarico passeggeri sono fissate in punti strategici lungo ogni rotta, e nonostante non vengano segnalate sono note a chiunque si serva dei taxi. La frequenza della flotta è notevole: quando un mezzo è troppo carico, basta attendere qualche minuto perché arrivi il successivo. Quello che aspetto per Piassa impiega appena altri cinque minuti. Stavolta l’esperienza mi aiuta a guadagnare un posto a bordo e mi sistemo entusiasta su una poltroncina. Oltre a quello dell’autista e allo sgabello di legno usato dal woyala durante le pause, dentro al minibus ci sono otto posti a sedere. Con mia grande sorpresa non viene accettato un solo passeggero in più. Tanto rigore però dura appena il tempo di metterci alle spalle il vigile. Alla fermata successiva carichiamo tutte le persone che riescono a entrare nel mezzo. Ora a bordo saremo almeno in venti, stretti tra le lamiere come sardine. Mentre cerco d’ingoiare le ginocchia, l’elegante anziano al mio fianco mi regala uno sguardo divertito ma colmo d’affetto. “Where are you go?”, domanda con la storpiatura più comune dell’inglese etiope.
Ho deciso di attraversare la città a bordo dei taxi locali, ma già dopo i primi chilometri mi chiedo se sarò all’altezza dell’impresa. Da mesi l’area intorno alla chiesa di Georghis è bloccata dai lavori della metropolitana di superficie, così il nostro taxi deve imboccare una viuzza laterale che costeggia il recinto murario della chiesa. Per lasciar strada al furgoncino, i pedoni sono costretti a schiacciarsi sulle bancarelle sistemate ai lati della via, dove gli esclusi dal “boom” economico etiope vendono mucchietti d’aglio e cipolle, ceppi di verza e pomodori impolverati. Passiamo davanti a una serie negozietti che somigliano a grandi scatole, dove sono esposti libri, vestiti e cianfrusaglie “made in China”. Finalmente sbuchiamo su quella che un tempo era la piazza centrale della città. Da qualche anno è stata recintata e trasformata nel cantiere a cielo aperto del centro commerciale più maestoso di tutta l’Africa. Il taxi scorre accanto alle lamiere ondulate che delimitano la piazza-cantiere e fa capolinea davanti al vecchio Cinema Ethiopia, dove un’interminabile fila di altri furgoncini attende di partire ognuno per la propria destinazione.
Spalle larghe e bacino ben piazzato, mi faccio largo a bordo del taxi diretto a Kasanchis, il quartiere che prende il nome dalle “case Incis”, costruite durante l’occupazione fascista dall’Istituto nazionale case per gli impiegati dello Stato (Incis). Poche centinaia di metri e il furgoncino abbandona il traffico del corso principale per infilarsi tra i vicoli di Sarategna Sefer, letteralmente “il quartiere dei lavoratori”. Fuori dal finestrino scorrono centinaia di piccole costruzioni in legno, fango e lamiera, che oltre alle abitazioni locali ospitano laboratori di sartoria, rivendite di carbone e una vasta gamma di mercerie. Negli ultimi anni, tra le baracche sono stati costruiti alcuni condomini in cemento, subito intergrati nella frenetica vita del quartiere. Il taxi prosegue la sua corsa attraverso Eri Bekentu, letteralmente “se urli nessuno ti sente”, un tempo area più popolosa della zona di Arat Kilo. Oggi del malfamato quartiere è rimasto in piedi solo qualche vecchio muro cadente. L’intera area sembra stata bombardata. Ai margini, i vecchi abitanti vendono porte, cancelli e quant’altro sono riusciti a recuperare dalle loro abitazioni rase al suolo dalle ruspe del governo. In alto, gli scheletri dei nuovi condomini avanzano sui resti delle baracche. Presto saranno pronti per ospitare la nuova classe emergente abebina.
Inserita dal New York Times e dalla Lonely Planet tra le città più interessanti da visitare al mondo, Addis vive una trasformazione straordinaria per la sua rapidità. Dai 3milioni d’abitanti del 2010, la popolazione dovrebbe raggiungere gli 8milioni entro il 2025. Per far fronte all’emergenza abitativa di una città coperta per l’80% da slam, nel 2005 il governo federale ha avviato la costruzione di migliaia di condomini, pensati per una classe media che comincia a emergere. Uno dopo l’altro, i tradizionali gorabet – quartieri-villaggio formati per lo più da baracche – vengono rasi al suolo per lasciar spazio a nuove edificazioni in cemento. Ma che ne sarà degli esclusi dal “boom”? Dove andranno a vivere gli sbaraccati? Me lo chiedo mentre il taxi passa sotto alla residenza del governo. Alla sinistra della strada, le torrette di avvistamento presidiate da militari armati segnano il confine invalicabile delle stanze del potere. Sulla destra invece, un’immensa spianata da cui spunta qualche rozza tenda di stracci. Sono i rifugi dei “miskin”, i diseredati della città, gli ultimi. Hanno occupato ancora l’area sgomberata attorno allo Sheraton Hotel, nonostante siano ben consapevoli che presto verranno scacciati di nuovo. Alle loro spalle, la sky-line di una città che sull’onda di una crescita economica costante (tra l’8 e il 10% annuo negli ultimi due lustri) sogna di diventare la nuova “New York africana”. Un sogno condiviso e pulsante, che accende l’aria di un entusiasmo ormai sconosciuto in Occidente. Un sogno che per non trasformarsi in incubo deve moderare le crescenti disparità economiche che stanno accompagnando il “boom”, salvaguardare la pace sociale che fa dell’Etiopia l’isola felice dell’Africa orientale.
Anche il mio taxi si lancia con fiducia verso gli esotici grattacieli a specchio della nuova Addis. Kazanchis infatti è tra i quartieri che più sono stati trasformati negli ultimi anni. Quel che resta delle vecchie “case Incis” con i loro muri dipinti di verde è ormai sovrastato da una fila di moderni alberghi a 5 stelle, che si moltiplicano senza sosta. Pur rimanendo semi-vuoti per 300 giorni all’anno sono infatti in grado di assicurare ottimi guadagni ai costruttori. Bastano le riunioni degli organismi internazionali, di cui la capitale diplomatica dell’Africa è teatro continuo, perché le stanze da 500 dollari a notte siano tutte esaurite. Il taxi fa capolinea proprio lungo la strada che divide la nuova Kazanchis di vetro e cemento da quel che resta delle tradizionali casette basse del quartiere. Consegno nelle mani del woyala i 3 birr (circa 10 centesimi di euro) della corsa e m’incammino verso l’orizzonte più lungo. Prima che scompaia.