“Estate” 2004. A luglio rimetto nel cassetto il costume da bagno, e infilo nello zaino guanti e sciarpa. Per le strade di Santiago del Cile –Santiasco per i suoi aficionados (asco in spagnolo vuol dire “nausea, schifo”)– è un inverno gelido da scaldare a colpi di piscola, il più popolare dei cocktail a base del bruciabudella nazionale, il pisco. Di giorno lavoro alla Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (Cepal), un’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere lo sviluppo dei Paesi dell’America centrale e meridionale. Di notte vado a scuola di cileno.
Se sono riuscito a sfilare a Santiasco la sua maschera grigio smog e a curiosare tra le sue bellezze, è soprattutto merito di straordinari Compadres: il Pendejo, l’Abuelo, el Flajo, Macaco y los demas huevones che mi hanno accompagnato tra mercati, taverne e balere. Grazie a loro ho potuto conoscere e vivere entrambe le anime di una città che a un primo impatto può davvero provocare la “nausea”.
La nota che vi ripropongo venne pubblicata da Kronstadt, un free-press di Pavia che ancora “resiste”. Un viaggio dal lussuoso quartiere di Vitacura -dove per mesi sono stato ospite di Macaco, nipote di un ex-presidente del Cile- alla Bellavista del Flajo -amico generoso e cinico, convinto che l’Amore fosse soltanto una pericolosa fantasia umana.
Nel cuore del “Paese sottile”, tra un pavimento di ghiaccio e un soffitto desertico, galleggia Santiasco. Ordinata nel recinto dei cerros, sotto una campana nera di smog, vive un terzo della popolazione cilena. Osservando la città dalla cima del Cerro San Cristobal, a braccetto della Vergine, lo sguardo non incontra i confini di questa spropositata concentrazione umana.
A nord-est, nel quartiere Vitacura, ci sono cliniche e università che non hanno nulla da invidiare alle principali città europee e nordamericane. La Santiago bene sfreccia per le strade alla guida degli ultimi modelli delle principali case automobilistiche. Sedute ai cafè, belle signore vestite Armani parlano dell’ultimo safari in Africa o dei figli che vanno qualche anno a studiare a Barcellona. Se ho finito le arance, devo fare 20 minuti a piedi per le superstrade deserte, fino al mega centro commerciale dei formaggi francesi e degli gnocchi italiani.
A sud-ovest invece, passata Providencia, s’incontra il centro della città. Gli scheletri dei palazzi antichi del quartiere Brazil raccontano lo splendore dei tempi andati e la fuga della classe alta cilena verso l’aria più respirabile della pre-Cordillera. Lungo l’Alameda c’è chi lustra scarpe tutto il giorno per mettere insieme 100 pesos, o chi passa il tempo saltando da una micro all’altra per vendere cociufrì, gelati o storie strappalacrime ai viaggiatori. Se nell’appartamento di Bellavista sono finite le arance passeggio 10 minuti per strade colorate e vivaci, attraverso i cafè di Pio IX, fino al mercato della Vega. Ancora affollato dai fantasmi notturni dell’alcool -diseredati che non riescono neanche più a mangiare e che si rifugiano qui per passare le notti- la Vega è teatro di uno spettacolo che non conosce soste. Lo sguardo si perde tra frutta e verdura di stagione, tra le cirimoya e le palta hass di cui signore gentili quanto corpulente invitano a saggiare il perfetto grado di maturazione. Pregna del fumo degli spinelli di paraguayos che girano tra gli scaricatori, l’aria è attraversata dalle risate e dalle strilla continue dei commercianti. Mentre sistemano su carretti di legno le casse di marmellata da scambiare coi vestiti alla Persa Bio-Bio -il mercato non alimentare della città- i ragazzi si sfottono rievocando l’ultimo scontro calcistico tra il ColoColo e la U.
Quando ci si sveglia stanchi e doloranti a causa dell’overdose di piscola della notte precedente, e non si ha voglia d’infilarsi nell’allegra confusione della Vega, Bellavista è pieno di minuscole tiendas. Come quella dell’immigrato palestinese Zaccaria, dove spulciando il confuso ammasso di merci in vendita si può trovare tutto ciò che serve a far passare una sbornia.
Contribuiscono invece al malditesta i resoconti dei quotidiani locali. Sulle loro pagine rimbalza l’invito a scendere in cantina, per stappare il vino migliore. C’è da brindare all’ultimo colpo degli ex-generali di Pinocho, che dai loro scranni in Senato hanno bloccato le royalties sull’estrazione del rame. Non tassando le grandi multinazionali straniere, che continuano a succhiare le risorse cilene ricavando miliardi ma dichiarandosi in perdita, secondo la stampa prezzolata si difenderebbe l’occupazione. Santiago del Cile, emblema del nostro tempo, è una città spaccata dove non esiste il grigio perché bianco e nero non si mischiano mai.