Ho appena deciso di farla finita con la cooperazione internazionale e provare a guadagnarmi da vivere scrivendo, quando nell’ottobre del 2004 entro per la prima volta in Bolivia. Con me ci sono il fidatissimo Abuelo, compadre di mille ghignate, e la splendida Ana, meglio nota come Ministerio de la Buena Onda. Arriviamo dal deserto di Atacama, in Cile, a bordo di una jeep diretta al Salar de Uyuni. Risaliamo la Cordillera de los Andes tra lagune di mille colori, stormi di fenicotteri rosa, vulcani, orde di pacifici lama, pozze termali e gayser ustionanti. Un viaggio durato 3 giorni, forse lo spettacolo più bello che la Natura mi abbia mai offerto.
Al nostro arrivo le piazze della Bolivia sono bollenti. Il popolo è reduce dalla “guerra dell’acqua”, con cui ha impedito a un governo corrotto di privatizzare le risorse idriche del Paese, e continua a combattere la “guerra del gas” per ottenere la nazionalizzazione delle ricchissime riserve di idrocarburi. Nelle strade di La Paz, capitale dello Stato andino,la gente parla di un imminente colpo di Stato. Ogni notte el Prado, il corso principale della città, è invaso da file interminabili di carri armati diretti verso El Alto, l’area più povera della capitale dove pulsa il cuore della rivolta. La tensione nell’aria si taglia col coltello, ma per fortuna non sfocia in nuovi scontri durante la nostra permanenza. Un anno ancora ed Evo Morales diventerà il primo presidente indigeno della Bolivia.
La nota che vi ripropongo, spedita da uno dei primi internet cafè della Bolivia, venne pubblicata da Kronstadt, un free-press di Pavia che ancora “resiste”: http://beta.kronstadt.it/
Più tardi, sulle pagine di Altreconomia, sono tornato a occuparmi delle sorti di uno dei Paesi che più mi è rimasto nel cuore: http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=938
Simon Patino, indio senzatetto destinato a trasformare se stesso e la sua discendenza nei padroni della Bolivia, accende un fuoco sulla montagna per scaldare la notte gelida. Alle prime luci del nuovo giorno, qualcosa brilla tra i carboni. Da allora il Cerro Rico di Potosì, Bolvia, diviene pezzo di storia dell’America Latina, protagonista della prima fase del lungo dissanguamento imposto dai conquistatori europei, simbolo di quando le “vene aperte” erano quelle dell’argento e dello stagno.
Oggi passeggiando per la città si può ancora intuire lo splendore passato, delle chiese d’oro e delle strade d’argento, dei marmi italiani e degli specchi francesi d’importazione, dei corregidores spagnoli che ricacciavano a pedate sottoterra gli indios riemersi dalle viscere della miniera senza il suo sangue d’argento.
Sono secoli che i boliviani si sacrificano nel ventre scuro di quello che oggi assomiglia a un dente cariato, tanti sono stati i crolli e gli assestamenti che ogni volta seppellivano nuovi mineros. Si racconta che l’argento estratto dal Cerro Rico negli ultimi 500 anni basterebbe a costruire un ponte che porti fino a Madrid. Si racconta che mettendo in fila i cadaveri di chi ha perso la vita nelle viscere della montagna si potrebbe arrivare fino a Pechino.
La mamma mi ha insegnato a portare un dono quando vado a trovare qualcuno. Di solito compro del buon vino rosso. Qui mi sono state consigliate foglie di coca e dinamite. Tra i cunicoli di questa enorme groviera l’aria è irrespirabile, satura di mille veleni. Ma le nuove leve sfrecciano indifferenti, spingendo carrelli traboccanti minerali. Tra 10 anni la silicosi, causa la dieta a base di coca e solfuro di rame, ne ucciderà un quarto e ridurrà a zombie il resto. Eppure ogni anno ci sono nuove offerte di carne umana. Sedicenni, a volte più giovani, che desiderano ripercorre la strada dei loro padri. Perché non c’è alternativa economica valida nella regione. Perché essere minero è un onore.
Non esiste governo che non se la faccia sotto, quando gira voce che i mineros si sono messi in marcia per protestare. Nell’ottobre del 2003 arrivarono a La Paz ammassati sul rimorchio dei camion, così stretti da non aver spazio neanche per respirare. Alcuni addirittura a piedi, camminando per giorni, masticando foglie di coca e rabbia. La città rimase due settimane in stato d’assedio. Pietre e bastoni contro carri armati e mitragliette automatiche. Davanti alla furia inarrestabile del popolo, che per ogni morto avanzava un passo di più, il capo del governo Gonzalo Sanchez de Lozada si rifugiò negli Stati Uniti. Il suo successore Mesa, per calmare gli animi, si impegnò a nazionalizzare le risorse di gas e petrolio. Dopo mesi passati ad attendere invano, fu un minero a denunciare a modo suo il mancato adempimento di quella promessa: imbottito di dinamite si infilò nelle stanze del potere e si fece saltare in aria. Oggi, a un anno da quella promessa mancata, la gente s’incontra a plaza de los Heroes. Circoli di centinaia di persone discutono di una nuova imminente ondata di proteste, di un nuovo “Ottobre Rosso”.
Intanto a Cusco, in Perù, per protestare contro l’aumento inarrestabile del prezzo della benzina, la città si ferma. Al grido “Paro” (sciopero) per le splendide strade ciottolate non circola una sola macchina. I negozi sono tutti chiusi per solidarietà. Sopra le 3 linee di fango del barrio Amauta, sulla circonvallazione, la gente tira pietre e insulti ai pochi che osano sgarrare.