Un bambino affetto da sindrome di down carezza la testa di un suo compagno costretto su una sedia a rotelle. Questa è l’immagine che più mi ha scaldato il cuore mentre scorrevo le foto raccolte 5 anni fa durante le settimane trascorse a Bhopal. Ricordo come i giovanissimi pazienti del Chingari Rehabilitation Center – un’associazione che si occupa di fornire cure mediche gratuite agli eredi della tragedia di Bhopal – fossero abituati a vedersi puntar addosso un obiettivo. In un quarto di secolo tanti altri erano passati prima di me per documentare l’orrore di cui è vittima questa gente. Tanti altri sarebbero passati ancora. Perché questa storia infame non sembra aver fine.
Trent’anni fa l’antica città indiana di Bhopal si risvegliò avvolta in una nube tossica. Gli stabilimenti della Union Carbide, una fabbrica statunitense che produceva pesticidi tossici e vietati negli Stati Uniti, era esplosa diffondendo nell’aria oltre 40 tonnellate di isocianato di metile. Hazira Bi, divenuta in seguito leader dei sopravvissuti, mi raccontò quella notte così: “Fu mio marito a svegliarmi. ‘Chi diavolo si è messo a cucinare peperoncini a quest’ora?’, sbraitava tra un colpo di tosse e l’altro. Quando ho aperto gli occhi sono stata invasa da un bruciore violento. Respirare mi era quasi impossibile. Da fuori sono cominciate ad arrivare urla disperate. Mi sono affacciata alla porta della nostra baracca e ho visto gente che correva in ogni direzione. In preda al panico, ho avvolto il mio ultimogenito in una coperta e ci siamo riversati fuori anche noi. Le strade erano tappezzate di corpi, che spesso venivano calpestati dalla folla disorientata. Siamo finiti all’interno di un scuola, dove qualcuno aveva acceso un fuoco. Soltanto lì, mentre mi sciacquavo la faccia, mi sono accorta che mancava uno dei nostri figli. Sono tornata di corsa indietro e l’ho trovato disteso su un carretto di fronte alla nostra casa. Privo di conoscenza, lo stavano per ammassare su una pila di cadaveri”. Quella notte morirono quasi 4mila persone. Un bilancio che oggi ha superato le 30mila vittime e a cui va sommato oltre mezzo milione di uomini e donne che sopravvivono in condizioni disperate, affetti da problemi cronici all’apparato respiratorio, immunitario, neurologico, riproduttivo e intestinale. Migliaia di bambini continuano a venire al mondo condannati a deformità fisiche, cecità, ritardo mentale.
Gli impianti da cui si sprigionò la nube tossica sono ancora lì. Nessuno si è mai occupato di smantellarli e di decontaminare l’area della fabbrica. Anno dopo anno, la vegetazione ne inghiotte le strutture rosicchiate dalla ruggine. Le sostanze tossiche abbandonate all’interno sono percolate nel suolo, contaminando anche la falda acquifera. Secondo le analisi più recenti, condotte nel 2009 dal Centre for Science and Environment (www.cseindia.org), nell’area degli impianti la concentrazione di pesticidi nell’acqua di superficie è 561 volte superiore a quella di sicurezza. Una concentrazione analoga si registra negli 8 chilometri quadrati attorno alla ex fabbrica, dove continuano a vivere decine di migliaia di persone. Nel 2004 la Corte Suprema dell’India ha ordinato al governo del Madhya Pradesh – lo Stato di cui Bhopal è capitale – di rifornire le 22 comunità colpite dal disastro con dei tank di acqua potabile. I sopravvissuti hanno marciato fino a Delhi nel 2006 e nel 2008 perché il governo cominciasse finalmente a predisporre i tank. Ma ancora oggi la fornitura è saltuaria e oltre 20mila persone sono costrette a bere acqua contaminata.
Anche la giustizia rimane un miraggio. Nonostante le prove dell’utilizzo di tecnologie meno sicure rispetto a quelle installate nelle filiali statunitensi, di tagli sulle misure e sul personale di sicurezza, i responsabili del peggiore disastro dell’era industriale sono rimasti pressoché impuniti. Come hanno dimostrato le intercettazioni pubblicate da Wikileaks nel aprile del 2011, il merito è della diplomazia statunitense e dell’appoggio di alcuni ministri del governo indiano collusi con la Dow Chemical, il gruppo che ha assorbito la Union Carbide nel 2001. Warren Anderson – amministratore delegato della Union Carbide, di cui gli Stati Uniti non hanno mai concesso l’estradizione – è morto lo scorso 29 settembre a 92 anni, senza aver trascorso neppure un giorno della sua vita in carcere. Molte delle vittime della tragedia attendono ancora di ricevere i risarcimenti dovuti dalla compagnia statunitense.
La notte passata gli abitanti di Bhopal, così come i manifestanti solidali alla loro causa in tante altre città del mondo, hanno marciato chiedendo ancora una volta che la Dow Chemical assuma le proprie responsabilità e provveda a bonificare l’area colpita dalla tragedia e risarcire le vittime. Ma i dirigenti del gigante agro-industriale statunitense, che nel 2013 fatturava 57 miliardi di dollari producendo in 36 diversi Paesi, sono troppo impegnati a fare affari per dare ascolto agli appelli che gli vengono rivolti. Ros McLean, presidente della divisione africana della Dow, qualche settimana fa ha annunciato l’apertura di una nuova filiale in Etiopia, pronta a lanciarsi sul promettente mercato del teff e a rifornire gli agricoltori locali con “innovativi prodotti chimici”.
Del mio viaggio a Bhopal ho scritto per Popoli: http://www.adrianomarzi.com/tearsheets/leredita-tossica-di-bhopal-popoli-12201/
Alcune delle foto scattate allora sono utilizzate dal Bhopal Medical Appeal: http://bhopal.org/
Qui la galleria con gli scatti raccolti per raccontare questa storia: http://www.adrianomarzi.com/stories/india-bhopal-toxic-legacy/