“Il peccato originale della civiltà occidentale è la proprietà privata della terra, artificiale e infondata come il diritto divino dei re”. Così scriveva l’economista Henry George, ormai due secoli fa. In Etiopia sembrano aver sposato le sue idee: salito al potere nel 1991, l’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (Eprdf) – partito che continua a governare incontrastato il Paese anche dopo la morte del leader Meles Zenawi – ha prima mantenuto il regime fondiario “sociale” del Derg, poi stabilito nella costituzione del 1995 che “la terra è proprietà comune delle nazioni, nazionalità e popoli d’Etiopia”. Ma dietro gli slogan patriottici della retorica di regime, l’unico vero proprietario della terra etiope è il governo, in grado di concederne e revocarne il diritto di utilizzo a suo piacimento.
Col pretesto di voler “modernizzare il settore agricolo” e di mettere a frutto terre “inutilizzate”, negli ultimi 5 anni l’Eprdf sta portando avanti un vasto piano di leasing fondiario, di cui hanno approfittato investitori sauditi, indiani ed europei. Non ci sono stime certe sull’entità della terra concessa agli stranieri: i dati diffusi dallo Stato parlano di 3milioni di ettari, ma secondo Human rights watch (Hrw) a gennaio 2011 erano già 3.6milioni, un’area grande come l’Olanda. I canoni d’affitto delle terre sono irrisori – un euro all’ettaro, in alcune aree anche meno – le braccia pronte a coltivarla abbondanti e a prezzi stracciati. Così l’Etiopia è divenuta il nuovo Eldorado dell’agro-business.
Per raggiungere le serre hi-tech della Jittu Horticolture, l’apetta di fabbricazione indiana che mi accompagna deve attraversare una sterminata distesa coltivata a mais. Gli impianti occupano infatti solo una minima porzione dei 30mila ettari ottenuti nell’area di Hawassa dallo sceicco Mohammed Hussein Al Amoudi. Madre etiope e padre yemenita, Al Amoudi è tra gli uomini più ricchi del mondo. In Etiopia, il suo consorzio Midroc gestisce un impero fatto d’industrie, miniere d’oro, alberghi di lusso e centri commerciali. Dopo la crisi alimentare globale del 2007-2008, lo sceicco ha deciso di lanciarsi anche nel settore agricolo creando la Saudi Star, cui fa capo l’azienda che ho deciso di visitare.
Alla Jittu vengono coltivati soprattutto ortaggi: pomodori, zucchine, melanzane, carciofi, asparagi e tanto altro ancora. Prodotti “perfetti”, di dimensioni e colori ideali per i supermercati di Dubai o Riyadh, verso cui voleranno a tempo debito. Consumatori finali, varietà di semi piantate, macchinari e prodotti chimici utilizzati per la coltivazione: qui tutto è straniero. Solo la terra e le braccia sono etiopi. In queste serre vengono impiegate 600 persone, il cui salario oscilla tra i 600 e i 1000 birr al mese (25-40 euro). Lavorano 8 ore al giorno, 6 giorni alla settimana. Quando finisce il loro turno vengono perquisiti uno ad uno, per controllare che non provino a portarsi a casa qualche esemplare dei preziosi ortaggi.
Per far spazio agli investitori stranieri, il governo etiope in molti casi ha dovuto ricorrere a campagne di trasferimento coatto della popolazione locale. Le terre “inutilizzate” sono spesso pascoli. È il caso soprattutto della regione di Gambela, area remota del Paese al confine con il Sud Sudan, dove si concentra il fenomeno del leasing fondiario. Qui il 42% della terra è stato concesso agli investitori stranieri. La Saudi Star e la Karuturi – gigante indiano dell’agro-business – hanno ottenuto 100mila ettari ciascuna. La durata del contratto è di 90 anni: per i primi 6 il canone d’affitto è gratuito, poi 15 birr (60 centesimi di euro) all’ettaro per i successivi 84 anni.
Secondo l’ultimo rapporto di Hrw sulla “villaggizzazione” delle tribù Anuak e Nuer che vivono a Gambela, decine di migliaia di persone sono state obbligate con la forza ad abbandonare le proprie terre e i propri pascoli. Chiunque abbia provato a opporre resistenza è stato arrestato. Le terre liberate sono quelle più vicine ai corsi d’acqua e alle infrastrutture realizzate dal governo, le stesse promesse o già assegnate agli investitori stranieri.
Trasferimenti coatti ed episodi di violenza non sono un’esclusiva di Gambela. A sud, nella valle del fiume Omo, per favorire una compagnia che si occupa di estrarre oro, l’esercito etiope avrebbe sterminato 150 persone di etnia Suri appartenenti al villaggio di Beyahola. “Alcuni cadaveri sono stati bruciati in fosse comuni nella foresta di Dibdib, altri seppelliti nelle profondità delle miniere d’oro”. La notizia, riportata lo scorso 9 gennaio dalla Cnn sul suo sito iReport, non ha però trovato eco né in Etiopia, né su altri media internazionali. Sapere cosa succede davvero a Gambela o nella valle dell’Omo è impossibile. Da qualche anno ormai gli organi di stampa non allineati sono stati messi a tacere, e i principali esponenti dei partiti d’opposizione costretti all’esilio o in carcere. Alle organizzazioni non governative che ricevono dall’estero almeno il 10% delle loro risorse finanziarie (di fatto quasi tutte), è stato vietato con una legge ad hoc di occuparsi di “diritti umani e civili, di problemi etnici e di risoluzione dei conflitti”. Come scrive Stefano Liberti nel suo Land Grabbing (minimum fax, 2012): “La linea rossa non va oltrepassata. Le terre, secondo la versione ufficiale del governo, sono vuote e non utilizzate. E chi si azzarda a dire il contrario è un nemico del progresso che, come tale, dovrà essere punito”.
Il progresso.. Come restano oscure le dinamiche che regolano il processo di leasing fondiario, altrettanto poco chiari sono i benefici che l’Etiopia starebbe ricavando da questa politica. Fatti salvi i posti di lavoro creati, finora la “modernizzazione del settore agricolo” sembra confinata alle enclave straniere. I contadini e gli allevatori etiopi, che rappresentano l’85% della popolazione nazionale, ne restano invece ancora del tutto estranei. Il vero interesse dello Stato – oltre a una dimostrazione di onnipotenza di fronte alla geopolitica mondiale – sembra essere piuttosto l’acquisizione di moneta pregiata, valuta estera con cui entrare nei mercati finanziari globali così da assicurarsi un potere ancora più grande.
“La terra è di chi la lavora”, diceva Emiliano Zapata, eroe della rivoluzione messicana. Ma sembra che a chi governa l’Etiopia questa idea piaccia di meno.