Nonostante sia stata introdotta solo di recente, la floricoltura in Etiopia è un’industria seconda solo a quella del caffè e del pellame. Le principali compagnie mondiali del settore hanno cominciato a trasferirsi qui una decina di anni fa, attratte dalle condizioni molto favorevoli offerte dal governo etiope: terre fertilissime concesse a prezzi irrisori e incentivi fiscali straordinari. Ma è soprattutto la forza lavoro abbondante e a bassissimo costo che rende così attraente l’Etiopia. La Sher, compagnia olandese leader mondiale nel commercio di rose, ha scelto il lago di Ziway, 160 km a sud di Addis Abeba, per impiantare le sue prime serre etiopi. Osservate dalle cime delle colline circostanti, le fila di capannoni color bianco sporco hanno l’aspetto di una propaggine malaticcia del lago, che dalla riva si perde all’orizzonte.
Raggiungo l’ingresso principale della Sher Ethiopia a bordo di un calesse guidato da due ragazzini. È domenica, ma l’aria è comunque frenetica. Lungo quello che è stato ribattezzato il “viale dei fiori” c’è un via vai continuo di gente. I lavoratori si affollano sul rimorchio dei camion, oppure arrivano in bicicletta e a piedi. Le guardie di servizio all’ingresso mi scrutano con diffidenza, e passa una buona mezzora prima che mi lascino entrare. Ma la pazienza viene ricompensata, e quando finalmente mi accompagnano agli uffici, ad accogliermi c’è John Barnhoorn in persona, figlio del fondatore della Sher e attuale direttore dell’azienda.
John è un uomo corpulento e dall’espressione seria. La sua pelle bianchissima e gli occhi di un azzurro gelido ne fanno una creatura molto esotica a queste latitudini. Mi racconta che da quando suo padre è andato in pensione, lui si occupa di seguire la produzione in Africa mentre suo fratello dirige le vendite in Europa. “Sono venuto per la prima volta in Etiopia 8 anni fa, per controllare i terreni che ci offriva il governo. Le prime serre sono state impiantate l’anno successivo. Abbiamo finanziato la costruzione di un ospedale e di una scuola, di cui può usufruire gratuitamente sia il nostro personale e che i più bisognosi. Tre anni fa abbiamo anche messo su una squadra di calcio con un suo stadio personale: siamo in seconda divisione ma puntiamo in alto. Lavorare qui non è semplice: la burocrazia ci rende la vita dura, e ci sono ritardi continui nelle spedizioni e nelle consegne. Anche la vita di tutti giorni è un’impresa, ma pian piano sono riuscito ad ambientarmi. Ormai parlo anche un discreto amarico, ma preferisco non usarlo mai in azienda: comunicando in inglese per i miei dipendenti è più difficile mentire”.
Ancora qualche ora di lavoro e poi John volerà in Olanda per trascorrere il Natale con la sua famiglia. Ho avuto fortuna, sembra che l’idea della tavola imbandita attorniata dai suoi cari basti a renderlo felice e bendisposto. Così quando gli racconto che mi piacerebbe visitare la sua azienda – conoscere meglio una realtà in grado di trasformare il villaggio di pescatori di Ziway in una cittadina che non smette di attrarre forza lavoro da tutta la regione – acconsente a fare un’eccezione. “Il commercio delle rose gode di una pessima stampa e di solito non permettiamo a nessuno di visitare i nostri impianti. Ma se Kebel, il responsabile per i rapporti con il pubblico, non è già troppo impegnato magari puoi tornare domattina”.
Soltanto a Ziway, la Sher ha 34 capannoni distesi su una superficie complessiva di circa 600 ettari, tutti coltivati a rose. Danno lavoro a oltre 10mila persone. Per arrivare dall’ingresso principale dell’azienda fino alla serra numero 11, dove mi aspetta Kebel, c’è da fare un paio di chilometri. Riesco a dribblare l’offerta di un passaggio in macchina, e ne approfitto per cominciare a curiosare un po’ in giro. Ogni capannone è presidiato almeno da un paio di guardie armate e accedervi senza invito pare impossibile. Ho fortuna in una sola occasione, la serra numero 3. Comincio a scattare qualche fotografia e scambiare le prime battute con i lavoratori impegnati tra le rose. Sotto ai capannoni fa un gran caldo e gli impiegati, soprattutto giovani donne, sembrano soffrirne. Nonostante siano costretti a lavorare in un ambiente pregno di pesticidi e fertilizzanti di origine chimica, nessuno dei lavoratori indossa mascherine o altri tipi di protezione. Fatta eccezione per le addette al taglio degli steli, nessuno porta neppure i guanti. I lavoratori sembrano felici della mia presenza e disposti a soddisfare ogni curiosità circa orari di lavoro e salari. Ma, ahimé, non posso rimanere a lungo. Rischierei di contrariare chi mi sta aspettando.
Quando raggiungo il suo ufficio, Kebel mi fa subito notare che sono in ritardo di mezzora. Mi scuso sostenendo che la sveglia mi ha piantato in asso. Mentre cominciamo la nostra visita, Kebel tiene a precisare che le serre sono tutte uguali, che la realtà che mi sta mostrando è la stessa che troverei negli altri capannoni. Mi spiega come la lotta ai parassiti venga fatta con un approccio “integrato”, che affianca l’utilizzo di antiparassitari naturali a quello di sostanze chimiche. Come illustra un cartello affisso all’ingresso della serra, queste rose sono state piantate nel novembre del 2007. Ogni 15 giorni sono in grado di fornire un nuovo ciclo di boccioli pronti per il mercato. Solo nello stabilimento di Ziway, la Sher produce circa 5 milioni di boccioli al giorno, di cui il 95% è già venduto su ordinazione.
Dalla serra passiamo agli impianti d’impacchettamento, dove le lavoratrici dividono le rose in base alla lunghezza dello stelo e le confezionano in mazzi pronti per la spedizione. I pacchi di rose vengono poi sistemati in grandi scatoloni, che attenderanno qualche ora nelle celle frigorifere prima di essere spediti via aerea ad Amsterdam, principale centro mondiale di smistamento. Da lì raggiungeranno gli altri mercati europei, quello americano, indiano, russo e così via.
Con immenso stupore sugli involucri usati per avvolgere le rose scopro il marchio “Fairtrade”, che certifica una produzione conforme ai criteri dal commercio equo e solidale. Kebel mi racconta che oltre a quella della Fairtrade Labelling Organisation (Flo), la Sher può vantare la certificazione di “Fair Flowers, Fair Plants” e di “Ethical Trading Initiative”. Come può essere equo un commercio in cui gli etiopi vengono pagati meno di un euro al giorno per lavorare in un ambiente insalubre, in cui c’è ancora chi è impiegato a giornata e che si ammala per le sostanze tossiche con cui è costretto a entrare in contatto? Come può essere solidale un commercio che sottrae terra alla produzione agricola di un Paese colpito da continue carestie, per produrre fiori da vendere ai consumatori dei Paesi ricchi?
Quando Kebel mi comunica che ha un altro impegno e che è ora di congedarmi, decido che vale la pena curiosare ancora un po’ in giro. Riesco ad affacciarmi in altre 2 serre, e a scattare qualche altra foto. Ritraggo le file interminabili di capannoni che si perdono all’orizzonte fino a raggiungere la riva del lago, le montagne di scarti di produzione ammassate fuori da alcune serre. Quando arrivo all’uscita però ad attendermi ci sono 2 militari in mimetica blu e fucile a tracolla. Mi fanno cenno di seguirli in un ufficio, dove poco più tardi arriva anche Kebel. “Cosa hai fatto dopo che ci siamo salutati? Ti avevo detto di lasciare subito l’azienda, ma un guardiano ha chiamato per avvisare che ti sei fermato in altre serre. Fammi vedere le foto che hai scattato”. Mi costringe a cancellare gran parte degli scatti fatti lungo la via del ritorno. Poi mi carica su una macchina e mi porta fuori dall’azienda.