Dorit Rabinyan è una scrittrice israeliana. Nel 2014 pubblica Borderlife (Longanesi), un romanzo che racconta la storia d’amore di Liat e Hilmi, una giovane ricercatrice israeliana e un pittore palestinese che s’incontrano a New York. Il successo è tale che nel 2015 il libro viene inserito tra quelli di testo dei licei israeliani. Dopo qualche mese però, il nuovo ministro dell’Istruzione – Naftali Bennet, leader del partito nazionalista-religioso “Casa ebraica” – ne ordina il bando: a suo avviso, il libro “rischia di essere un incoraggiamento all’amore tra giudei e non-giudei” e per questo va subito ritirato dai programmi delle scuole. Intervistata da Le Monde, l’autrice racconta le minacce e le molestie subite dopo la pubblicazione e commenta: “gli ebrei sono usciti dal ghetto, ma il ghetto non è uscito da loro. Una convivenza pacifica con i palestinesi fa paura a molti, perché pensano possa mettere in pericolo la nostra identità”.
Anche Bezalel Smotrich, uno degli altri deputati che “Casa ebraica” può contare alla Knesset (il parlamento israeliano), disapprova l’amore tra israeliani e palestinesi. Smotrich ha 6 figli, che vivono con la moglie nella colonia di Kedoumim e che lui vede solo durante lo shabbat, nel finesettimana. Quando il giornalista Piotr Smolar gli chiede “cosa farebbe se uno di loro volesse sposare un o un’araba?”, risponde: “non succederà mai, i miei figli hanno ricevuto una buona educazione. Chi vuole preservare l’identità giudea deve fare molta attenzione ai rischi dell’assimilazione, il più grave pericolo che abbiamo di fronte. Sono contrario ai matrimoni misti, non solo con gli arabi ma con chiunque non sia giudeo”. Smotrich, che nel 2005 guidò le violente proteste contro il ritiro dei coloni israeliani dalla Striscia di Gaza (venne arrestato ma poi rilasciato senza alcuna accusa), è considerato oggi il leader del movimento dei coloni ed è tra parlamentari più attivi nel promuovere leggi a favore degli insediamenti in territorio palestinese.
Nonostante i pochi seggi su cui conta in parlamento (8 su 120), “Casa ebraica” può vantare oltre al ministro dell’Istruzione anche quella della Giustizia, Ayelet Shaked. Se a questi si aggiunge Avigdor Lieberman, leader del partito di estrema destra “Israele casa nostra” (6 seggi) e attuale ministro della Difesa, si capisce come il governo del primo ministro Benjamin Netanyahou per garantire la propria sopravvivenza abbia accettato di essere ostaggio dei partiti nazionalisti-religiosi, cui ha lasciato colonizzare il pensiero e l’azione politica di Israele innescandone la deriva fascista. L’annessione della colonia di Maale Adumim, voluta di recente da Smotrich e Yoav Kish (Likud), è un esempio di questa nuova strategia comune, che intende “difendere gli interessi ed esercitare la sovranità di Israele sulle sue comunità in Giudea-Samaria”, appellativo biblico della Cisgiordania, usato dagli ultraortodossi per rivendicarne il diritto all’occupazione.
Se l’estrema destra ha sfondato a Israele è soprattutto grazie al sostegno di un esercito di quasi mezzo milione di coloni insediati illegalmente in territorio palestinese: 140 colonie ufficiali sono state costruite dal 1967 quando, dopo “la guerra dei 6 giorni”, Israele ha occupato militarmente la Cisgiordania e Gerusalemme Est. A queste si aggiungono altri 97 avamposti costruiti senza l’approvazione del governo israeliano. I partiti nazionalisti-religiosi possono contare inoltre sull’appoggio finanziario e politico di varie organizzazione sioniste che hanno base negli Stati Uniti, tra cui alcuni dei più importanti sostenitori del nuovo presidente Trump.
Sotto la spinta dell’alleanza politica tra l’ala più radicale della destra “classica” (il Likud di Netanyahou, che governa Israele da quasi vent’anni) e la nuova generazione dell’estrema destra ultraortodossa, il governo israeliano ha oltrepassato una linea senza precedenti. Forte anche del consenso del nuovo governo degli Stati Uniti, dall’inizio del 2017 Israele ha prima ripreso con forza la colonizzazione del territorio palestinese, poi votato un provvedimento che legalizza retroattivamente gli insediamenti abusivi. A fine gennaio è stata annunciata la costruzione di oltre 500 nuove case a Gerusalemme Est – la parte della città abitata dalla popolazione araba-palestinese – e di circa altre 2500 in Cisgiordania. Per giustificarsi Netanyahu e Lieberman hanno parlato della “risposta a un’emergenza abitativa”. Tra le nuove abitazioni, oltre 100 saranno costruite a Beit El, un insediamento vicino Ramallah, che ha ricevuto il sostegno finanziario di una fondazione amministrata da Jared Kushner, genero ebreo di Trump appena promosso alla guida “del nuovo sforzo diplomatico degli Stati Uniti per trovare una soluzione pacifica al conflitto mediorientale”.
Se la nuova ondata colonizzatrice ha suscitato il dissenso dell’opinione pubblica mondiale, il provvedimento più scandaloso e violento è però quello che da febbraio legalizza retroattivamente le colonie abusive e che, come recita il testo di legge, ha l’obiettivo di “disciplinare gli insediamenti in Giudea e Samaria, permettere il loro mantenimento e il loro sviluppo”. Secondo Avichai Mandelblit, procuratore generale di Israele, la legge è incostituzionale e violando la Quarta convenzione di Ginevra potrebbe costare a Israele la condanna della Corte penale internazionale. Timori che non sembrano condivisi da “Casa ebraica”, che definisce la legge “un provvedimento storico, che consentirà ai giudei di riprendersi le loro terre di Giudea e Samaria”.
Non sono serviti a nulla neppure i richiami della comunità internazionale, che ha criticato le recenti iniziative israeliane come palesi violazioni della risoluzione approvata il 23 dicembre scorso dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che “condanna la costruzione e l’espansione delle colonie”. Passata anche grazie al fatto che gli Stati Uniti di Obama si sono astenuti per la prima volta dal porre il veto a una mozione contraria a Israele, dopo l’elezione di Trump la risoluzione è considerata carta straccia dal governo israeliano. Da allora infatti la politica mediorientale degli Stati Uniti, che hanno sempre considerato gli insediamenti in Cisgiordania e Gerusalemme Est come “un ostacolo alla pace” e che dagli accordi di Oslo del 1993 sono tra i sostenitori formali della creazione di uno Stato palestinese, ha subito un drastico cambiamento.
Appena entrato in carica, Trump ha infatti nominato come nuovo ambasciatore degli Stati Uniti a Israele David Friedman, un attivo sostenitore dell’estrema destra ebraica e del movimento dei coloni. Da anni Friedman finanzia gli insediamenti illegali in Cisgiordania e il sito web sionista Arutz Sheva. È contrario alla creazione di uno Stato palestinese e ha accusato Obama e i suoi sostenitori di “antisemitismo” per aver condannato le colonie abusive. Vorrebbe spostare l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme (dove ha la sua casa), riconoscendola così “capitale indivisibile dello Stato di Israele” e non più una città che dovrebbe essere condivisa da israeliani e palestinesi nel quadro di un accordo di pace.
Prima di ottenere la carica di ambasciatore, Friedman è stato a lungo uno degli avvocati più intimi di Trump, noto soprattutto per aver gestito il fallimento miliardario dei suoi casinò di Atlantic City. Durante la campagna elettorale, molti hanno paragonato il nuovo presidente degli Stati Uniti a Silvio Berlusconi: battute e menzogne facili, ossessione per potere e donne, ma soprattutto enormi guai con il fisco e un mare di debiti. In Italia, due decenni d’inchieste giornalistiche e giudiziarie hanno fatto in parte chiarezza sui reali motivi che spinsero “il Cavaliere” a “scendere in campo”: in sostanza, o la politica o la galera. Dopo la sorprendente elezione di Trump, il New York Times ha annunciato che incrementerà di 5 milioni di dollari le risorse a disposizione del suo reparto investigativo. C’è da augurarsi che le prossime inchieste possano far presto luce sui motivi che hanno spinto Trump a candidarsi, magari cominciando a capire con chi è indebitato dopo i suoi fallimenti continui. Al momento, l’unica certezza – come dimostra la nomina di Friedman, fatta prima ancora che il senato ufficializzasse quella di Rex Tillerson a segretario di Stato – è che gli Stati Uniti non sono più dalla parte degli storici alleati israeliani ma da quella del fondamentalismo ebraico. Una grave minaccia per chiunque abbia a cuore la pace in Medioriente e nel Mondo.