Chi entra ad Harar è destinato a intraprendere soprattutto un viaggio nel tempo. Spalmata sulla cima di una collina che domina i campi tutt’intorno, l’antica città è protetta da mura fortificate in cui si aprono cinque porte. Da qui, all’alba, entrano i contadini coi loro asini, le schiene cariche dei frutti della terra e del sudore. La notte invece è il turno delle iene, che vengono a ripulire la città popolando l’oscurità delle loro sinistre risate. All’interno delle mura non c’è traccia di alberghi, banche o internet cafè, tutti relegati nella città nuova che continua a crescere attorno. La vita sembra scorrere ancora nel decimo secolo, periodo cui vengono fatti risalire i primi insediamenti umani e la costruzione delle moschee più antiche (Aw Mansur e Garad Muhammad Abogh).
Se per alcuni turisti una giornata è sufficiente a visitare Harar, molti dei suoi abitanti sostengono di scoprire ogni giorno un angolo nuovo di cui ignoravano l’esistenza. Il viaggiatore disposto a credergli, si perderà per una ragnatela di vicoli stretti e tortuosi, lungo i quali si aprono gli ingressi tinteggiati di fresco delle case basse e accoglienti. Incastonati tra i muretti di cinta, melograni pieni di frutti maturi, vecchi alberi sacri dai tronchi nodosi e incavi, forni per il pane dipinti di verde.
I fianchi dei corsi principali della città sono tappezzati da file di mendicanti – i corpi tormentati da nugoli di mosche fameliche, le mani divorate dalla lebbra tese a implorare i passanti. A volte può capitare di imbattersi in creature misteriose, volti sbarrati in una smorfia sgomenta, occhi spiritati. Puntano lo straniero, e quando gli sono addosso l’omaggiano di un generoso benvenuto fatto di urla minacciose e sputacchi. I più folli, secondo l’usanza locale, sono costretti a trascinarsi coi piedi legati in morse di ferro assicurate da robusti lucchetti.
Quarta città santa dell’Islam dopo Mecca, Medina e Gerusalemme, Harar è considerata un covo di sufi miscredenti dai fondamentalisti islamici. Qui cristiani e mussulmani convivono in pace da secoli, e si respira un Islam aperto e tollerante. La religione è protagonista assoluta della vita cittadina. Dalle 89 moschee della città, cinque volte al giorno si leva alto in cielo il grido con cui i muezzin richiamano i fedeli alla preghiera: “Allahu Akbar. La ilaha illa Allah”, “Dio è grande. Non c’è altro Dio all’infuori d’Iddio”. Di colpo la città si ferma, ogni attività viene interrotta, l’aria rimane sospesa. Chi non ha fatto in tempo a entrare in una moschea o a tornarsene a casa propria, s’appoggia a un muro, rivolge il palmo delle mani al cielo, e comincia a recitare le sue preghiere e i suoi ringraziamenti.
Il giovedì poi è la notte degli zikr, le tradizionali riunioni delle confraternite di mussulmani. In città sono rimasti solo 3 nebigar, come vengono chiamati i luoghi che ospitano queste cerimonie. Tra percussioni, canti e danze che vanno avanti fino alle prime luci del nuovo giorno, i fedeli rendono grazia ad Allah e al suo profeta Muhammad. Durante il rituale si consumano montagne di khat, foglie verdi simili a quelle del tè, che vengono masticate per sprigionarne il succo in grado di scacciare fame e stanchezza, spalancare il cuore e affilare la mente. Il khat, altrove usato come droga di piacere, qui è consumato soprattutto in chiave mistica. Ogni pomeriggio gli harari tornano a casa per sdraiarsi nella “stanza dell’accoglienza”, un grande salone tappezzato di cuscini, la cui architettura è studiata in modo che tutti i convitati possano guardarsi negli occhi. Avvolti nei martò – una specie di grande gonna simile al kilt degli scozzesi – passano il tempo a masticar chat e parlare di religione, filosofia, politica, economia e soprattutto del bene della loro straordinaria città. Lo straniero che ha la fortuna di essere tra gli invitati, può avere la sensazione di esser tornato ai tempi dell’antica Roma, quando l’imperatore filosofo Adriano radunava nella sua villa di Tivoli i migliori pensatori della sua epoca, per discutere insieme delle sorti dell’Impero.
Di fronte a uno spettacolo così straordinario, a una realtà talmente irreale da sembrare un invito a scostare il velo dietro cui si nasconde la sua vera essenza, l’unica possibilità è quella di abbandonarsi. Dimenticare tutto ciò che si crede di aver imparato lungo la strada fatta per arrivare fin qui. Provare a osservare e ad ascoltare con occhi e orecchie nuovi, col cuore attento e la mente disposta alla meraviglia. Così, con un po’ di fortuna, Harar comincerà a spuntar dalla nebbia.