Gabriele Del Grande è mio Fratello. “Compadre”, come ci chiamiamo tra noi, per riconoscere quelle persone che sentiamo ancor più vicine dei fratelli di sangue, perché sono fratelli di anima e cuore. In questi giorni, saperlo isolato in una galera turca mi toglie il respiro, mi soffoca il battito cardiaco. Mi sento impotente, frustrato. In che modo posso aiutarlo? Vado a incatenarmi ai cancelli dell’ambasciata turca di Addis Abeba, dove vivo con la mia famiglia? Strillo, piango e scalcio fino a farmi arrestare anch’io? Mia moglie mi ricorda che tra qualche giorno nostra figlia Michela compie un anno.. Anche Gabri di recente ha avuto un bambino: Levante – questo lo splendido nome che hanno scelto con la compagna Alexandra – è nato poco prima di Michela. La felicità può essere pericolosa, può rendere pavidi. Non è il caso di Gabriele, che da qualche mese si è tuffato nell’ennesima coraggiosa e generosa avventura: ha deciso di scrivere un libro, Un partigiano mi disse, che faccia luce e informazione sulla guerra che da 7 anni devasta la Siria e da lì si propaga in Medioriente, in Europa e nel Mondo; un libro che racconti la nascita e la vera identità del cosiddetto Stato islamico, di cui tutti parlano senza saperne niente; un libro che renda almeno la giustizia del vero “a quello straordinario e pacifico movimento che tra il 2011 e il 2012, quando la parola d’ordine era ancora non-violenza, portò in piazza milioni di siriani contro la dittatura, decine di migliaia dei quali sono stati uccisi, torturati, sepolti in carcere o costretti ad abbandonare il proprio Paese”
La prima volta che incontro Gabriele, 11 anni fa, siamo a Capodarco di Fermo per un festival di giornalismo, ospiti dell’agenzia stampa Redattore sociale per cui entrambi lavoriamo in quel periodo. Stefano Trasatti, il simpatico direttore dell’agenzia, ci ha fatto sistemare in due stanzette contigue, nascoste nel bosco, in un prefabbricato lontano dalla struttura principale che ospita l’evento. Arrivo che è già notte, stanco per i chilometri fatti in macchina durante la giornata di lavoro, con l’unico desiderio di stendere le gambe e mischiare il profumo fresco della sera con quella di una bella fumata. Gabri non ha sonno e così facciamo le ore piccole sotto le stelle, chiacchierando di sogni da giornalisti che non si iscriverebbero all’ordine neanche se fosse gratuito e che pensano la professione come una missione con cui combattere le ingiustizie che soffocano il mondo.
Da allora il grande Del Grande ne ha fatta di strada. Nel 2006, pochi mesi dopo il nostro primo incontro, fonda l’osservatorio Fortress Europe, un blog che riporta ogni notizia pubblicata dalla stampa internazionale a partire dal 1988 sulle vittime dei flussi migratori che dall’Africa sono diretti alla “Fortezza Europa” attraverso il Mediterraneo. Nel giro di pochi anni Fortress Europe diventa la principale fonte di informazione a riguardo, utilizzata come riferimento da tutti i più noti giornali e riviste mondiali. Per il suo lavoro di documentazione, Gabriele si impegna soprattutto in Maghreb, l’area da cui partono i “barconi della speranza”. Da queste sue esperienze di viaggio nascono anche i libri Mamadou va a morire (2007) e Il mare di mezzo (2010), pubblicati in Italia da Infinito edizioni. Nel settembre 2013, in piena guerra civile, decide di partire per la Siria dove trascorre 10 giorni “viaggiando soltanto con civili siriani, senza appoggiarsi né all’esercito né ai ribelli”. Ne viene fuori uno splendido reportage pubblicato in quattro puntate da Internazionale. Un mese dopo, tornato in Italia, Gabri s’improvvisa “contrabbandiere”. Insieme ai “fratelli” Antonio Augugliaro e Khaled Al-Nassiry, alle rispettive compagne e a un gruppo di amici stretti mette in piedi un finto corteo di nozze per portare in Svezia 5 amici palestinesi e siriani da poco sbarcati a Lampedusa. Filmano tutto e l’impresa diventa “Io sto con la sposa”, un docufilm in concorso nel 2014 al festival del cinema di Venezia, finanziato e prodotto dal basso da migliaia di persone e visto da milioni di spettatori nei cinema di 50 Paesi e sui canali satellitari di mezzo mondo.
Nonostante anni di meravigliosi successi, per finanziare la sua nuova impresa Gabriele deve ricorre al crowdfunding. Qui ne spiega il motivo:
“Sono stato 5 volte in Siria dall’inizio della guerra, parlo correntemente arabo, seguo ogni giorno gli sviluppi del conflitto, ho alle spalle 10 anni di inchieste nel Mediterraneo, un blog citato sulla stampa di tutto il mondo, 3 libri e un film che fa ancora parlare di sé. In un Paese normale il mio curriculum basterebbe a farmi commissionare questo lavoro da un giornale o da un grande editore. Ma l’Italia non è un Paese normale. Per un periodo ho creduto che la visibilità internazionale che mi ha dato il film avrebbe cambiato le cose. Non è andata così. Ma non mi sembra un buon motivo per mollare. Al contrario. Sarà sicuramente molto più faticoso, ma anche più avvincente, mi aiuterà a restare me stesso e a costruire un rapporto vero con il mio pubblico, che poi è una comunità di persone reali a cui io stesso appartengo per la mia storia”.
In 60 giorni raccoglie quasi 50mila euro da 1342 sostenitori. Il progetto parte lo scorso autunno con il lavoro sul campo, “6 mesi di viaggi tra Turchia, Siria, Libano, Iraq, Tunisia, Libia”. Per intercettare i racconti dei profughi siriani, Gabriele si reca in Turchia, nella provincia sud-orientale dell’Hatay, quella popolata in maggioranza da curdi, nota alle cronache internazionale per le continue violazioni dei diritti umani commesse dall’esercito turco e per questo ormai vietata ai curiosi. È in quell’area di confine con la Siria che, il 9 aprile, Gabriele viene fermato dalla polizia turca e rinchiuso in un centro d’identificazione ed espulsione. Dopo 8 giorni senza contatti con l’esterno gli viene finalmente concesso di fare una telefonata alla sua compagna:
“Sto parlando con 4 poliziotti che mi guardano e ascoltano. Mi hanno fermato al confine con la Siria. Dopo avermi tenuto nel centro di identificazione e di espulsione di Hatay, sono stato trasferito a Mugla, sempre in un centro di identificazione ed espulsione. Sono in isolamento. I miei documenti sono in regola, ma non mi è permesso di nominare un avvocato, né mi è dato sapere quando finirà questo fermo. Sto bene, non mi è stato torto un capello ma non posso telefonare, hanno sequestrato il mio telefono e le mie cose, sebbene non mi venga contestato nessun reato. La ragione del fermo è legata al contenuto del mio lavoro. Ho subito ripetuti interrogatori al riguardo. Ho potuto telefonare solo dopo giorni di protesta. Non mi è stato detto che le autorità italiane volevano mettersi in contatto con me. Da stasera entrerò in sciopero della fame e invito tutti a mobilitarsi per chiedere che vengano rispettati i miei diritti”.
Oggi nelle carceri turche ci sono più giornalisti di quelli imprigionati in Cina. Tra gli altri, c’è Dezin Yucel: il corrispondente del quotidiano tedesco Die Welt è stato fermato il 14 febbraio scorso mentre indagava su Berat Albayrak, ministro dell’energia e genero di Erdogan. Due settimane più tardi, il fermo è stato tradotto in arresto con l’accusa di propaganda terroristica e sedizione. Il dittatore Erdogan, impegnato in una campagna di odio contro l’Europa e i suoi valori, ha promesso in tv: “finché sarò al potere, Yucel non sarà libero di tornare in Germania”.
In un contesto minaccioso come quello della Turchia di oggi, la sorte di Gabriele Del Grande sembra essere nelle mani di gente come Angelino Alfano, un ministro degli esteri che non sa neppure parlare inglese e che occupa il suo ruolo attuale per interessi di (mal)governo che soltanto gli ottusi possono sforzarsi d’ignorare. Se lasciato nelle mani della diplomazia italiana, Gabri rischia di precipitare ancora più a fondo in questo incubo. Per tornare libero ha bisogno invece del sostegno dal basso dell’Italia “normale”, la stessa che in questi anni lo ha aiutato a produrre e diffondere il suo lavoro.