A Roma, “città eterna”, la memoria è un muscolo ogni giorno più pigro, atrofizzato in modo ormai quasi irrimediabile. Memoria affettiva e relazionale di gente sempre più persa nei cazzi suoi. Memoria storica e politica, humus sterilizzato di un presente che ha perso la bussola. Il nano si è buttato dalle spalle del gigante e gli piscia sui piedi, tronfio d’orgoglio suicida. Rigurgiti di un passato nero appestano l’aria stantia di una città che ha preso tutti i difetti e nessun pregio della metropoli, la cui “grande bellezza” rimane ostaggio della solita cricca di banditi incravattati. Basta scorrere la lista dei papabili alla prossima poltrona di sindaco, quasi tutti “impresentabili” freschi di malaffare, per capire come il circo del potere registri con piena soddisfazione l’indifferenza dei cittadini zombie e ne approfitti a man bassa. In tale agonizzante contesto, dove anche realtà leggere come quelle nate attorno al Teatro Valle o all’ex Cinema America sono state sgombrate senza colpo ferire, i 30 anni “d’amore e autogestione” del Forte Prenestino sono un miracolo. Per condividerne la memoria è stato appena autoprodotto il libro Fortopìa, “scrittura collettiva di una storia collettiva”. Perché quella del Forte “non è un’utopia, qualcosa che si allontana sempre di più, ma un’eterotopia, un luogo che una volta passato il ponte è reale, presente e pulsante”.
Era il primo maggio 1986, quarta Festa del Non Lavoro, evento nato nei primi anni Ottanta dalle realtà anarchiche, punk e antagoniste che orbitavano attorno alla pubblicazione Vuoto a Perdere. Si volevano “invadere i territori nemici”, riappropriarsi di spazi abbandonati dove sperimentare l’autogestione. “La giornata – come racconta l’apertura di Fortopìa – era iniziata sotto un cielo nero e minaccioso, sotto una pioggia a tratti battente, il fallout radioattivo di Chernobyl e la radio che trasmetteva le disposizioni del governo con cui si vietava la vendita delle verdure a foglia larga, il latte e i suoi derivati. Il palco venne montato a ridosso del cancello del Forte. La festa doveva finire a mezzanotte, quando scadeva l’autorizzazione. (…) Il cantante dei Bloody Riot, puro hardcore romano, si mise a pisciare dal palco sulla gente che pogava. Venne srotolato uno striscione: ‘La festa continua’. Un gruppo di persone era pronto a tagliare la catena del cancello che impediva l’entrata al Forte. Come in un fumetto si accorsero di aver dimenticato le cesoie”
Le cesoie saltarono fuori grazie alla complicità dei compagni del Blitz, altro centro sociale occupato il giorno prima. Da allora la struttura militare, tra i Forti costruiti dopo la breccia di Porta Pia per difendere la neo-capitale del Regno d’Italia da un eventuale tentativo francese di reinstaurare lo Stato Pontificio, è stata trasformata in un luogo aperto a tutti, che da 30 anni offre un’alternativa alla Roma noiosa, “posto buono per farsi le pere, suburra alla periferia dell’impero che oggi solo un fumetto, Ranxerox, è ancora capace di raccontare”, come scrive il Duka in uno dei racconti raccolti in Fortopìa.
Racconti messi insieme in pochi mesi appena, tra “tutt* quell* che hanno attraversato il Forte” e inviato il loro contributo al libro. La mia storia d’amore preferita è quella a pagina 242, scritta dall’amico d’infanzia Franzo, che la mattina del primo maggio 2016 mi aspettava sul ponte levatoio del Forte con gli occhi pesti del risveglio e due cartoni zeppi di cornetti per la prima colazione. Quello con cui di seguito v’invito ad andare a cercare, leggere e collezionare questo solido mattone della collettività romana è invece un estratto del primo racconto della raccolta, quello di Carlo T, intitolato “La tronchese”.
Prima mi sembrava di non essere un cazzo. Un fastidio fisso e pure un po’ di schifo per tutti. Millenovecentottantadue. C’erano questi altri, gli autonomi, che sembravano incazzati anche loro. Però a me le giacche di renna e le polacchine non mi piacevano proprio e poi questi credevano nell’umanità, parlavano di futuro, di comunismo.. no, qui bisogna spaccare tutto, distruggere. Bisogna solo galleggiare mangiando meno merda possibile e tirandone più che puoi a chi in quella merda ti ci tiene. Sedici anni avevo. Ho sentito Johnny Marcio latrare: “I am an antichrist, I am an anarchist, Don’t know what I want, But I know how to get it, I wanna destroy the passerby, Cause I wanna be Anarchy”. Quindi non ero solo io. Era il PUNK. (…) Ci facevamo domande profonde tipo “Aho, ma i punk a Milano hanno occupato, fanno concerti, l’autogestione. E che noi semo più cojoni dei milanesi?”. “Semo più cojoni dei milanesi?” funzionava sempre. (…) Dicembre ’85 la prima settimana di Forte, sappiamo che si può fare. Cinque mesi più tardi sto dietro al palco della Festa del Non Lavoro e aspetto Mario del Blitz, che muore qualche anno dopo sparandosi con le guardie su un treno. Ci deve portare la tronchese. Arriva. La da’ a me, che la porto a Gianfranco. Lui ci spacca la catena che tiene sequestrato il Forte da troppi anni. Sono il secondo a entrare lì dentro, il primo maggio millenovecentottantasei. Sapevo cosa volevo. Lo stavo ottenendo. Andava meglio a me che al Marcio”