Per raggiungere la sede dei patrioti etiopici, che combatterono il fascismo dal 1936 al 1941, bisogna attraversare un corridoio buio nascosto tra le viscere di un anonimo centro commerciale. Se non fosse per gli uffici della Commercial Bank of Ethiopia “Arbegnoch Branch” affacciati sulla strada, si potrebbe pensare che gli arbegnoch siano ancora in clandestinità. L’ingresso dell’unico stanzone di cui dispone l’associazione è presidiato, di spalle, da un manichino agghindato da condottiero in groppa a un cavallo di bronzo. All’interno, un gruppo di vecchietti in uniforme militare lavora tra le reliquie disordinate di un potenziale museo.
La scrivania del signor Adamu, il presidente, è circondata da centinaia di fotografie in cui sono ritratti gli eroi della Resistenza, ormai quasi tutti defunti. Al suo fianco ci sono due dipinti che rappresentano scene di guerra: in uno, l’esercito etiope e quello italiano si fronteggiano a colpi di baionetta; nell’altro, disseminato di teschi, il campo di battaglia è sotto il bombardamento ai gas nervini dell’aviazione fascista (secondo gli archivi statunitensi, le armi chimiche vennero impiegate su vasta scala: sul fronte nord 1020 bombe caricata a iprite, su quello meridionale 95 a iprite e 271 a fosgene).
Quando gli chiediamo di raccontarci qualche aneddoto, Adamu tira fuori da un cassetto “La civilisation de L’Italie fasciste en Ethiopie”, un vecchio libro francese in cui sono raccolte fotografie e alcuni comunicati militari dell’epoca. Comincia a sfogliarlo in silenzio. Sotto ai nostri occhi scorrono le immagini di soldati fascisti che posano fieri accanto ai cadaveri dei nemici, ne tengono le teste mozzate per i capelli o impalate.
Continuando ad avanzare tra le pagine del libro trovo un promemoria del tenente colonnello Francivalle, indirizzato a “sua eccellenza il vice re”. Comunica a Graziani che “Addis Abeba è stata ormai ripulita da tutta la mala genia degli stregoni e degli indovini. Si prospetta la opportunità che tale pulizia sia estesa a tutti i territori del vecchio Scioà, ove siffatti elementi infidi godono di grande ascendente presso le popolazioni”.
Il promemoria di Francivalle si riferisce alla rappresaglia fascista che, il 19 febbraio del 1937, fece strage di oltre 4mila persone tra la popolazione civile di Addis. Quella mattina, due arbegnoch si avvicinarono al palco dove il vice re Rodolfo Graziani stava tenendo un discorso e lanciarono delle granate. Tre ufficiali italiani morirono, uno perse un occhio e Graziani venne ferito dalle schegge. L’episodio diede briglia sciolta ai cani più rabbiosi tra le file fasciste: in piedi su casse di birra davanti alla “casa del fascio”, infami capi-popolo incitarono i soldati al massacro per le strade della capitale. Più tardi -come raccomandava Francivalle- passarono a sterminare l’intero clero ortodosso del monastero di Debre Libanos. “Ma fu proprio quel giorno – racconta Adamu – che la Resistenza capì di poter vincere e che il fascismo cominciò a perdere”.
Il 19 febbraio è diventato una ricorrenza nel calendario di Addis Abeba. Ogni anno, gli eredi dei partigiani etiopi tirano fuori uniformi e medaglie, copricapi guerrieri, fucili e lance, per sfilare tutt’insieme dalla sede dell’associazione fino a Sidist Kilo. Una volta raggiunta la piazza, porgono corone di fiori davanti all’obelisco su cui è rappresentata la strage. Nel 2012 l’artista italo-etiope Gabriella Ghermandi cantò per loro. Aveva raccolto le storie degli arbegnoch nel romanzo “Regina di fiori e di perle”, diventato anche uno spettacolo teatrale, e in alcune canzoni del disco “Atse Tewodros Project”. Gabriella intonò “Tew Belew” (“Lascia stare”), un canto di incitamento per i partigiani etiopi. Un verso dice: “mentre i fascisti facevano entrare tutte quelle le armi, le mitragliatrici e le bombe ai gas nervini, i combattenti etiopi li hanno falciati, accatastati e saltati in padella come il colo (le granaglie) per il caffè”.
La lotta contro la dittatura fascista ha reso fratelli il popolo italiano e quello etiope. La Resistenza italiana ha potuto contare tra le proprie fila “Carletto” Abbamagal. Arrivato a Napoli nel 1940 come figurante per la Triennale delle “Terre italiane d’Oltremare”, venne trasferito a Macerata quando l’Italia entrò in guerra. Fuggito dal confino, si unì al battaglione “Mario”, una brigata internazionale che includeva inglesi, francesi, polacchi, russi, jugoslavi e africani. Il partigiano etiope Carletto, come venne ribattezzato dai suoi compagni, venne ucciso dai nazisti nel novembre del 1943 sull’Appennino marchigiano. Sul fronte abissino invece, il nome più celebre è quello del partigiano Ilio Barontini, che tra la partecipazione alla guerra civile in Spagna e alla Resistenza in Italia, trovo il modo di unirsi anche agli arbegnoch sugli altopiani.