Martoriata da ripetuti tagli di bilancio, disorientata da una mala gestione sempre più comune, la cooperazione allo sviluppo è allo sbando. Un istinto di sopravvivenza radicato e insano continua a dar vita a tanti, troppi progetti, architettati soprattutto per tenere in piedi le organizzazioni “no profit” che li sponsorizzano. Slegati dai supposti beneficiari, gran parte degli interventi diventano così trapianti di organi estranei, presto rigettati dall’organismo su cui vorrebbero innestarsi. Casi di corruzione e abusi danno poi fiato a quelle voci che parlano di “neocolonialismo” e vorrebbero tirar giù una volta per tutte le tende del circo globale dello “aiuto allo sviluppo”.
Cercando traccia di progetti sani -in grado di far da bussola a chi sogna una strambata repentina, che consenta ai veri cooperanti di navigare col vento in poppa in acque amiche e fortunate- sono sbarcato a Ropi, un villaggio dell’Etiopia centrale dove non arrivano i tralicci della corrente elettrica, i tubi dell’acqua corrente e il manto asfaltato delle strade. Qui, ormai 7 anni fa, è arrivato un giovane e brillante architetto genovese, Lorenzo Fontana. Partito per raccogliere materiale utile alla sua tesi di laurea, ha trovato molto di più: terreno fertile su cui coltivare la propria espressione umana e professionale. Tra la polvere e le pulci ha deciso di costruire la sua casa, e di avviare un’attività di architetto e cooperante che lo portasse a lavorare al fianco della popolazione locale. Ropi si trova nel Siraro, una woreda (distretto) martoriata dall’erosione del suolo. La vegetazione rada della savana viene tagliata di continuo dagli abitanti del luogo per farne capanne, carretti, legna da ardere. Orfana della sua copertura vegetale, la terra si spacca in crateri profondi durante la stagione secca. Quando poi arriva quella delle piogge, l’acqua s’infila nelle vene aperte del suolo e le spalanca. Ispirato dal lavoro e dalle idee di Hassan Fathy e di Fabrizio Caròla, Lorenzo prova ad arginare l’avanzata dell’erosione diffondendo nella zona una nuova tecnica costruttiva, che preveda l’utilizzo di mattoni in terra cruda al posto del telaio ligneo tipico delle capanne locali. Per portare avanti i suoi progetti si appoggia di volta in volta a partner diversi: università, enti locali, associazioni, ong internazionali. Lo incontro nell’area che ospita un asilo e gli uffici di una serie di cooperative, realtà che ha progettato e costruito insieme ad alcuni abitanti di Ropi: le strutture sono tutte realizzate coi blocchi di terra cruda -pressata e seccata al sole- mentre il terreno è tappezzato da orti, forni solari, cisterne per l’acqua. Tutto frutto di qualche anno appena di sana cooperazione.
Di cosa ti occupi qui a Ropi?
Seguo diversi progetti, tutti all’interno di questo Youth Centre che abbiamo costruito grazie al sostegno del Centro italiano aiuti all’infanzia (Ciai), e in collaborazione con Nuuf Nu’u (nel dialetto locale significa “Noi per Noi”, ndr), una cooperativa locale partita come impresa di costruzioni, che oggi si occupa anche di didattica, formazione, orticultura e autoproduzione. Stiamo avviando altre 6 cooperative -elettricisti, falegnami, fabbri, tessitori, panettieri e tecnici informatici- tutte pensate per formare lavoratori qualificati, ma anche per rendere accessibili sul mercato locale un gran numero di beni che altrimenti dovrebbero essere importati. In questi mesi poi sta per partire un altro progetto, sempre sotto l’ombrello del Ciai: stiamo formando alcune cooperative di donne, che produrranno conserve di ortaggi, seccati e sottaceto. L’attività sarà in grado di generare reddito, ma soprattutto di calmierare la grande differenza di prezzo del cibo tra stagione del raccolto e stagione secca. Lavoriamo anche col governo locale, cercando di semplificare i modelli di contabilità e gestione delle cooperative, in modo da favorirne la diffusione nell’Etiopia rurale. Un altro fronte importante su cui siamo impegnati è quello delle tecniche agricole: nel tentativo di arginare gli influssi nefasti della monocultura ad alta intensità chimica -sempre più diffusa nel Paese- abbiamo fatto ripetute campagne di sensibilizzazione. Invitiamo gli agricoltori a sperimentare colture integrate, che consentano di ridurre l’impiego di fertilizzanti e pesticidi chimici – a esempio, file di leguminose tra le piante di granoturco, in modo da azotare il terreno e aumentare la resta del mais. Pian piano stiamo introducendo strumenti utili a ottimizzare i raccolti, come l’aratro versoio scalato e le seminatrici a ruota.
L’Etiopia è stata a lungo un Paese chiuso e impermeabile. Soltanto negli ultimi anni ha cominciato ad aprirsi a influenze globali. Lavorate anche sull’emancipazione culturale della popolazione?
Il Centro ospita una piccola ma nutrita biblioteca, e ogni settimana proiettiamo film o documentari che mostrino realtà lontane e non raggiungibili: oceani popolati da esotici branchi di pesci colorati, elettriche e affollate metropoli globali, antiche civiltà e culture sorte all’altro capo del Pianeta. Aiutiamo la gente a farsi un’idea del mondo che sta bussando alla loro porta e che, volenti o nolenti, lo farà con forza sempre maggiore. Allo stesso tempo però lavoriamo per irrobustire le radici locali, soprattutto dei bambini. L’asilo, a esempio, è pensato come un villaggio in miniatura, un grande spazio aperto con alberi, una piazza centrale e soprattutto orti. Ogni alunno ha in uso una piccola porzione di terra, che deve seminare, liberare dall’erbacce, innaffiare durante la stagione secca, e di cui raccoglierà i frutti. Le maestre coordinano l’esperienza, e si occupano delle fasi più complesse: aratura, utilizzo di pesticidi naturali, vendita degli ortaggi.Teniamo anche dei corsi prescolari pomeridiani, in cui non manca la musica e lo sport. Ai maestri della scuola pubblica locale offriamo corsi di inglese e di computer gratuiti. Insomma, come puoi vedere, portiamo avanti progetti molto diversi tra loro. L’unico tratto comune è l’impronta della cooperazione: si lavora sempre “insieme” ai beneficiari, non “per” loro. Vuoi lavorare? Benvenuto, ti offriamo formazione, materiali e assistenza. Vuoi elemosinare? Hai sbagliato posto.
Genova, la tua città natale, è terra di navigatori e orizzonti sconfinati. Come fa un genovese a non soffocare in una realtà minuscola come quella di Ropi?
Cerco di spingere il più lontano possibile i getti di tutto ciò che, radicato qui, sto aiutando a far crescere. Ogni anno organizzo dei workshop aperti a giovani architetti di tutto il mondo, desiderosi di fare un’esperienza di vita e di cantiere straordinaria. Attraverso un lavoro di progettazione partecipata e di autocostruzione assistita, gli ospiti hanno la possibilità di condividere per alcune settimane conoscenze e valori con la gente di Ropi. In questi anni ne ha approfittato un centinaio di studenti provenienti da Genova, Roma, Bologna, Firenze, ma anche spagnoli, greci, ciprioti e statunitensi. Con il Professor Massimo Corradi, direttore del Laboratorio di meccanica applicata alle costruzioni dell’Università di Genova, abbiamo anche dato assistenza a una dozzina di tesi di laurea, molte delle quali premiate con la dignità di stampa. Riguardavano tutte progetti di tecnologia dei materiali. Venivano ideate a Ropi, messe a punto e sperimentate nel Laboratorio di Genova, e poi impiegate di nuovo qui. Per condividere quanto appreso in questi anni straordinari, nel 2011 ho deciso di scrivere, pubblicare e distribuire “Lezioni africane”, un libro che sta facendo il giro di molte facoltà di architettura italiane. Insomma, il porto di Genova non è più fuori dalla finestra, ma continuo a godere di un splendido orizzonte.