Addywood, ciak si gira! – Popoli 10/2014

addywoodAi lati del “red carpet”, avvolte negli abiti tradizionali di mezza Africa, due file di modelle mozzafiato attendono il passaggio degli ospiti d’onore con grandi mazzi di rose rosse. Agghindato con stoffe e palloncini colorati, l’ingresso del National theatre è presidiato invece da palestrati travestivi da guerrieri armati di lancia e scudo. Gli altoparlanti annunciano i più importanti protagonisti del cinema africano e molti personaggi di quello internazionale. Uno alla volta, sfilano sotto alla statua del Leone di Giuda calpestando un tappeto di guzguaz, l’erba tipica delle cerimonie etiopi. Schiacciati sulle transenne che fanno da recinzione alla cerimonia, venditori ambulanti e bambini di strada lanciano alle star sguardi confusi ma colmi d’adorazione. Nell’atrio del teatro altri mazzi di rose sono sistemati sotto una gigantografia di Meles Zenawi, leader dell’ultimo ventennio etiope, morto in circostanze misteriose nel 2011 ma ancora onnipresente nell’estetica di un regime che poggia sulla sua figura. Scortato da due “guerrieri” che gli aprono la strada, il cineasta Abraham Haile Biru, organizzatore del Colors of the Nile International film festival (Coniff), fa il suo ingresso trionfale seguito da uno stuolo di modelle. Le rose -divenute da qualche anno prodotto d’eccellenza del “made in Ethiopia”- tappezzano anche il palco, su cui si stanno esibendo gruppi di ballerini acrobatici. Quando arriva Abraham, i ballerini lasciano il posto ai pittori e in pochi minuti un’immagine del compianto Nelson Mandela appare su una grande tela. Il teatro è affollato dal jet-set di Addis Abeba. Tra le star in prima fila manca solo Michel Papatakis, storico regista e testimonial dei “Gumma” awards, l’altro grande evento del cinema etiope, che prende il nome proprio dal più celebre dei suoi film. Aspiranti attrici e giovani registi vestiti secondo il glamour occidentale siedono affianco a elegantissime signore incartate come caramelle negli abiti tradizionali. Nel primo festival internazionale di cinema in Etiopia c’è così tanto berberé -il mix di spezie tipico della cucina locale- da cancellare il sapore della caricatura.

A braccetto con la crescita economica più alta e stabile tra i Paesi africani, l’industria cinematografica etiope è in pieno “boom”: 600 film prodotti negli ultimi 10 anni, un quinto solo nel 2013. Budget ancora modesti, che superano di rado 20mila dollari, ma profitti che possono arrivare fino a 5 volte il capitale investito. Un settore sempre più promettente per la massa di giovani disoccupati in cerca di un’occasione: non solo attrici e registi, ma anche tecnici audio e montatori video, truccatrici, addetti alle luci, logisti e tanti altri mestieri nati attorno all’orbita di Addywood. Una stella che sta conquistando sempre più spazio nel firmamento del cinema africano. Almeno nella programmazione delle sale locali, la produzione etiope ha già sbaragliato la concorrenza di Hollywood e Bollywood.

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Se in altri Paesi africani il consumo di cinema è legato soprattutto all’home-video, in Etiopia le sale cinematografiche hanno invece un successo eccezionale. Grazie soprattutto all’iniziativa privata, moderni cinema multi-sala stanno spuntando come funghi in molte città. Per i giovani in coda davanti agli ingressi, pronti ad attendere ore pur di vedere uno degli ultimi successi locali, i nuovi multi-sala rappresentano la modernità arrivata finalmente anche nel loro Paese. Qui il cinema è diventato soprattutto un fenomeno di costume. Entrare nelle sale è un gesto che testimonia la progressiva emancipazione dalla povertà. Le piccole stanze clandestine in cui per quattro soldi è possibile assistere alla proiezione di una copia pirata stanno pian piano sparendo. Il genere imperante è quello della commedia romantica disimpegnata e la qualità media dei film è ancora piuttosto scadente. Ma il pubblico etiope non sembra badare troppo ai contenuti. Al cinema si va in coppia, alla ricerca di un angolo di intimità in una società che guarda di cattivo occhio qualsiasi effusione amorosa fatta in pubblico. Ci si va con gli amici, per ridere e commentare -ad alta voce durante la proiezione- le battute del proprio attore preferito. L’universo cinematografico ha colonizzato anche il paesaggio urbano di Addis. Nelle principali piazze della città le star spuntano dai manifesti pubblicitari, affollano le prime pagine delle riviste in mano agli strilloni. I poster con i nuovi film in uscita sono ovunque: tappezzano i muri, si affacciano dalle vetrine dei negozi, colorano le fiancate dei “taxi” collettivi che affollano le strade.

La rivoluzione in corso ha caratteri straordinari, soprattutto se si guarda alla storia del cinema in Etiopia. Negli anni Settanta, il documentario inglese The Unknown Famine svela al mondo le condizioni di estrema povertà della popolazione etiope, contribuendo a innescare la rivolta che porta alla caduta dell’imperatore Halie Selassie e all’inizio della dittatura comunista del Derg. Da allora la classe politica etiope impone una drastica censura ai cineasti. Anche la chiesa ortodossa non ha mai visto di buon occhio il cinematografo: l’odierno Wafa Cinema, il più antico di Addis (fine XIX secolo), sede di una delle prime proiezioni in Africa, è noto ancora oggi come Seitan Bet, la “casa del diavolo”. L’avvento del Derg segna la nazionalizzazione di televisione e cinema, e riduce la programmazione a mera propaganda. Neanche il cambio di regime, che nei primi anni Novanta porta al potere Meles Zenawi e il suo Ethiopian People Revolutionary Democratic Front (Eprdf), è d’aiuto allo sviluppo della cinematografia. I pochi tecnici esperti, che si erano formati alla scuola russa, vengono epurati e sostituiti con ex guerriglieri. La svolta arriva all’inizio del nuovo millennio, quando il governo accetta finalmente di proiettare nelle sale anche quelle produzioni locali che hanno cominciato a rifiorire grazie all’avvento della tecnologia digitale. Il film che segna la rinascita è Kazkaza Welafegn, prodotto e diretto nel 2003 da Theodros Teshome: girato con l’intento di sensibilizzare alla questione dell’Aids, la pellicola finisce per divenire agli occhi del pubblico un simpatico elogio del dongiovannismo in salsa etiope.

addywood-3Grazie al “boom” del decennio successivo è nata una nuova generazione di cineasti, che non sogna più di fuggire all’estero ma vuole invece contribuire alla rinascita culturale del proprio Paese. Ogni giovedì sera, nei locali messi a disposizione dal centro culturale russo “Aleksandr Puskin”, si riunisce l’associazione di registi Allatinos. Sono giovani pieni di energie e speranze, ma anche frustrati dalla mancanza cronica di sostegno alla formazione. La censura imposta dal governo ne scoraggia inoltre ogni slancio creativo, spingendoli a inseguire il successo con pellicole commerciali e disimpegnate. Farsi un nome che vada al di là dei confini nazionali, diventa così un’impresa impossibile.

Nei primi anni Sessanta, l’eccentrico commerciante Ilala Ibsa vendette tutti i suoi beni per realizzare il suo (unico) film Hirut, Abtwa Manewn, primo lungometraggio mai prodotto da un etiope. La pellicola narra di una donna, che per far fronte alle difficoltà della vita ad Addis Abeba, finisce per prostituirsi. La sua esperienza svela le contraddizioni dell’Etiopia dell’epoca, un paese ancorato con forza ai valori della tradizione ortodossa nonostante i progetti di modernizzazione infrastrutturale voluti dall’imperatore, in cui la modernità occidentale si era infiltrata in modo rapido e inaspettato dando vita a inattesi quanto affascinanti risultati. Sulla stampa locale, Ilala difendeva il diritto del cinema a raccontare una realtà lontana dagli stereotipi del nazionalismo e della tradizione ortodossa. Oggi i più coraggiosi tra i giovani di Allatinos sembrano pronti a raccogliere la sua eredità. Grazie all’energia esplosiva e alla grande popolarità del cinema etiope, potrebbero dare finalmente espressione ai bisogni di maggiore libertà ed equità della popolazione.