“Quella notte fu mio marito a svegliarmi: ‘chi diavolo si è messo a cucinare peperoncini a quest’ora?’, sbraitava tra un colpo di tosse e l’altro. Ricordo che quando ho aperto gli occhi, sono stata invasa da un bruciore violento e che respirare mi era quasi impossibile. Da fuori sono cominciate ad arrivare urla disperate, e quando mi sono affacciata alla porta della nostra baracca ho visto gente che correva in ogni direzione. In preda al panico, ho avvolto il mio ultimogenito in una coperta e ci siamo riversati fuori anche noi. Le strade erano tappezzate di corpi, che spesso venivano calpestati dalla folla disorientata. Siamo finiti all’interno di un scuola, dove qualcuno aveva organizzato un fuoco. Soltanto lì, mentre mi sciacquavo la faccia, mi sono accorta che mancava uno dei nostri figli. Sono tornata di corsa indietro, e l’ho trovato disteso su un carretto di fronte alla nostra casa. Privo di conoscenza, lo stavano per ammassare su una pila di cadaveri.”
Hazira Bi è una dei sopravvissuti al disastro di Bhopal. Intorno alla mezzanotte del 2 dicembre 1984, una reazione chimica all’interno degli impianti della Union Carbide – una fabbrica di pesticidi statunitense – sprigionò nell’aria 40 tonnellate di metil-isocianato (Mic). Il vento diffuse la nuvola di gas tossico nella zona intorno alla fabbrica, dove dormiva oltre mezzo milione di persone. Molte di loro non si risvegliarono mai. Secondo le stime di Amnesty International, 8mila morirono nelle prime 72 ore e altre 20mila negli anni successivi. Oggi oltre 120mila persone sopravvivono in condizioni disperate, affette da cronici problemi all’apparato respiratorio, immunitario, neurologico, riproduttivo e intestinale. Tubercolosi e cancro sono malattie comuni tra le vittime del disastro.
Gli impianti da cui si sprigionò la nube tossica sono ancora lì. Nessuno si è mai occupato di smantellarli e di decontaminare l’area della fabbrica. Anno dopo anno, la vegetazione ne inghiotte le strutture rosicchiate dalla ruggine. Le sostanze tossiche abbandonate all’interno sono percolate nel suolo per oltre un quarto di secolo, contaminando anche la falda acquifera. Secondo le analisi più recenti, condotte nel 2009 dal Centre for Science and Environment (www.cseindia.org), nell’area degli impianti la concentrazione di pesticidi nell’acqua di superficie è 0,28 ppm, 561 volte superiore a quella di sicurezza. Anche nei quartieri circostanti il livello di contaminazione è drammatico: Arif Nagar, a poche centinaia di metri dalla fabbrica, è 60 volte oltre il limite (0,03 ppm), mentre altre zone presentano livelli tra 5 e 40 volte superiori a quello di guardia. Oltre ai pesticidi (diclorobenzene, tricolorobenzene, sevin), le analisi del suolo hanno rivelato quantità notevoli di arsenico, cromo, mercurio e piombo. Eppure molti abitanti, privi di risorse idriche alternative, sono ancora costretti a utilizzare l’acqua di falda pompata in superficie. Nel 2004 la Corte Suprema dell’India ha ordinato al governo del Madhya Pradesh (lo Stato di cui Bhopal è capitale) di rifornire le aree colpite dal disastro con dei tank di acqua potabile. “Ma – racconta Hazira, che in questi 27 anni è diventata tra i leader del movimento dei sopravvissuti – abbiamo dovuto marciare fino a Delhi nel 2006 e nel 2008 perché il governo cominciasse finalmente a predisporre i tank. Oggi la fornitura è ancora saltuaria, e oltre 20mila persone continuano a bere acqua contaminata.”
L’area della Union Carbide è circondata da un basso muro di cinta, coperto di graffiti. Tra i tanti slogan che invocano giustizia in hindi e in inglese, ce n’è anche uno scritto in italiano: “ORA E SEMPRE RESISTENZA”. Niente filo spinato, né alcun sistema d’allarme. Il controllo è affidato a una pigra coppia di guardie, che fuma bidi (la tipica sigaretta indiana) seduta su delle brandine di ferro in fondo al viale d’entrata. Per ottenere i documenti necessari a visitare la fabbrica occorre passare attraverso l’estenuante burocrazia indiana. Ma all’interno c’è un sacco di gente senza permesso. In mancanza di altri pascoli, diversi pastori portano le loro capre a brucare qui, dove la vegetazione è rigogliosa. Gruppi di ragazzini scavalcano ogni giorno indisturbati il muro di cinta, per giocare a cricket sulla distesa di terra brulla e polverosa di fronte alle loro case. Quest’angolo, dov’erano sistemate le vasche per l’evaporazione solare di alcuni scarti di produzione tossici, è il più contaminato in assoluto. L’odore delle sostanze chimiche è molto forte, e io respiro a fatica mentre guardo incredulo i ragazzini correre e strillare felici.
Il dottor Ramesh Bhargava si occupa delle vittime fin dal 1984 e oggi lavora al JN Hospital, uno dei tanti ospedali pubblici costruiti subito dopo il disastro. Ogni giorno riceve centinaia di malati: “la maggior parte di queste persone ha perso le proprie difese respiratorie, la loro resistenza fisica è crollata. Per questo la tubercolosi e altre infezioni polmonari sono molto comuni. Per aiutarli gli somministriamo antibiotici e farmaci per la dilatazione bronchiale. Sono medicinali in grado di alleviarne le pene, ma del tutto inefficaci a riparare i danni subiti dal loro organismo. Non c’è modo di curare questa gente.”
Alla Sambhavna Clinic non sono d’accordo. Questa struttura – un modello di architettura ambientale ed efficienza energetica, dotato di un giardino in cui si coltivano piante medicinali sufficienti a coprire il 65% del fabbisogno interno – offre gratuitamente consulti, terapie e medicine alle vittime del disastro. Convinti che l’assunzione massiccia di antibiotici, analgesici e steroidi contribuisca soltanto ad appesantire il “carico tossico” delle vittime, i medici della Sambhavna vi ricorrono il meno possibile, puntando invece su un trattamento olistico: erbe medicinali, medicina ayurveda, terapie yoga e panchakarma (una tecnica di “depurazione” del corpo attraverso l’uso di oli e messaggi). La clinica può vantare risultati importanti nel trattamento di gran parte dei sintomi più comuni tra le vittime: artriti reumatiche, dermatiti, problemi articolari, addominali, respiratori e mestruali. “Non accettiamo fondi dal governo indiano o da multinazionali – spiega Satinath Sarangi, che tutti chiamano Sathyu, fondatore della clinica e attivista fin dai primi giorni dal disastro – ma ci finanziamo grazie al piccolo contributo di molte persone. La campagna Bhopal Medical Appeal (www.bhopal.org), lanciata nel 1994 su The Guardian con l’aiuto dello scrittore Indra Sinha (autore di Animal’s People, ndr) e dal fotografo Raghu Rai, ci ha permesso di dar vita alla clinica. Grazie alle donazioni di Greenpeace e dello scrittore Dominique Lapierre (autore di Five Past Midnight in Bhopal, ndr) abbiamo poi realizzato la struttura che ci ospita oggi. Il nostro budget annuale è di circa 30mila dollari, che servono soprattutto a coprire i salari e l’acquisto di medicine convenzionali”. Quando è stata aperta, la Sambhavna Clinic poteva contare su appena 6 dipendenti che occupavano 2 stanze in un edificio vicino la fabbrica. Oggi nella nuova struttura lavorano 60 persone, di cui quasi un terzo sono anch’esse vittime del gas. La clinica, che ospita anche il principale centro di documentazione sul disastro ed è un punto di riferimento per gli attivisti di tutto il mondo, ha già dato cure a oltre 50mila persone.
Sotto l’ombrello del Bhopal Medical Appeal, dal 2007 è attivo anche un centro che si occupa dei figli delle vittime, bambini che un’eredità tossica ha condannato a rachitismo, deformità fisiche, cecità e ritardo mentale. Il Chingari Rehabilitation Centre finora ne ha individuati 300 sotto i 12 anni, cui fornisce l’assistenza gratuita di fisioterapisti, educatori del linguaggio e personale di sostegno. L’organizzazione è stata fondata da Chapmpadevi Shukla e Rashida Bee, 2 sopravvissute al disastro che per il loro impegno come attiviste nel 2004 hanno ricevuto il Goldman Environmental Award (meglio noto come Nobel alternativo per l’Ambiente). “Abbiamo realizzato il centro con i 125mila dollari del premio – racconta Rashida – ma non siamo ancora in grado di fronteggiare l’emergenza tra le nuove generazioni di vittime. Avremmo bisogno di altri terapisti e di insegnanti per ciechi e sordi. Finora siamo riusciti a trasferire 9 bambini in una scuola normale. Occorre fare di più per questi piccoli, cui il governo non da nessun aiuto.”
In questi 27 anni, il governo indiano si è mostrato più preoccupato di mantenere un clima favorevole agli investimenti stranieri che di promuovere giustizia per il disastro di Bhopal. Al contrario, le autorità sono state fin da principio tra i principali avversari dei sopravvissuti (vedi box). Warren Anderson, direttore della Union Carbide, dopo essere stato arrestato per omicidio colposo al suo arrivo in India 3 giorni dopo il disastro, venne subito rilasciato su cauzione e rispedito negli Usa, da cui non ha mai fatto ritorno. Da allora, nelle stanze del potere indiano si è fatto tutto il possibile affinché né la sua società, né la Dow Chemical (che ha assorbito la Union Carbide nel 2001) potessero essere ritenute colpevoli dirette della tragedia.
Oggi il governo del Madhya Pradesh vuole aprire l’area della fabbrica al pubblico, farne una sorta di memoriale. Il progetto di un architetto di Delhi, in via d’approvazione, comprende gallerie espositive, vetrine con calchi in ferro delle vittime, torri d’avvistamento e negozi dove fare shopping. “L’apertura al pubblico sfaterà finalmente il mito che il luogo sia ancora contaminato”, sostiene SR Mohanty, principale segretario del governo statale. Anche Sathyu pensa che la fabbrica della Union Carbide debba diventare un memoriale: “una volta decontaminata, dovrebbe essere conservata come testimonianza per l’umanità del disastro di Bhopal. Qualcosa di simile a quanto fatto in Europa per i campi di concentramento nazisti.”
Nessun colpevole ai piani alti
A oltre un quarto di secolo dalla notte del disastro, il 7 giugno 2010 un tribunale indiano ha emesso finalmente delle condanne. In galera sono finiti 7 impiegati indiani della Union Carbide. Ma nessuno di loro sconterà la propria pena a 2 anni di carcere. Il giorno successivo al verdetto sono tutti usciti su cauzione pagando 25mila rupie (circa 4mila euro), la stessa cifra ricevuta da ciascuna delle vittime come compensazione. Nonostante le prove dell’utilizzo di tecnologie inferiori e meno sicure rispetto a quelle installate nelle filiali statunitensi, dei tagli sulle misure e sul personale di sicurezza, nella sentenza non viene riconosciuta alcuna colpa a proprietari e dirigenti della compagnia. Merito della diplomazia statunitense e dell’appoggio di alcuni ministri del governo indiano collusi con la Dow Chemical, come dimostrano le intercettazioni pubblicate da Wikileaks nel aprile del 2011, che rivelano un’impressionante giro di tangenti.
Il Governo indiano è stato un avversario delle vittime fin da principio. Con il “Bhopal Act” si arrogò il diritto a essere l’unico rappresentante giuridico della vicenda. Inizialmente chiese un risarcimento di 3,3 miliardi di dollari, e nel 1989 si accordò con la Union Carbide per 470milioni, liquidando ogni responsabilità criminale della compagnia. Le proteste dei sopravvissuti spinsero però la Corte Suprema a riaprire il caso nel 1991. Ma 5 anni più tardi l’accusa di “omicidio colposo” venne ridotta a quella di semplice “negligenza”. I tentativi di estradare Anderson, che oggi ha 90 anni, non hanno mai dato frutto. Per i danni subiti, le 574mila vittime riconosciute dal Governo hanno ricevuto 2 pagamenti, nel 1989 e nel 2004, da 25mila rupie ciascuno. Nel 2010 è stata annunciata una nuova trance, che però riguarderebbe soltanto 42mila persone. Le altre non avrebbero più diritto a essere risarcite, in quanto considerate “vittime temporanee”. I sopravvissuti hanno annunciato che in segno di protesta dal 3 dicembre, anniversario del disastro, bloccheranno tutti i treni di passaggio a Bhopal.