L’industria globale dell’auto elettrica guarda con molto interesse alle elezioni che si terranno in Bolivia il prossimo 18 ottobre. I governi dei Paesi più ricchi continuano infatti ad aumentare i sussidi all’acquisto – in Germania, a esempio, sono arrivati a 9mila euro per auto – ma le principali case automobilistiche fanno fatica a tenere il passo della domanda. Chi oggi ordina un modello elettrico può attendere anche un anno prima della consegna. Il problema rimangono le batterie, il cui componente principale è il litio. Un minerale che potrebbe sostituire il petrolio nel prossimo futuro dell’automobile e rendere la Bolivia, dove si trovano il giacimenti più grandi del mondo, una nuova Arabia Saudita.
Affinché i boliviani colgano questa opportunità di sviluppo sarà però fondamentale la gestione della risorsa. Narrata senza pari dallo scrittore Eduardo Galeano, la storia delle “vene aperte” dell’argento e dello stagno boliviani, succhiate fino all’osso dai colonizzatori stranieri, rischia di ripetersi. Primo indigeno alla guida di un Paese in cui i nativi sono quasi due terzi della popolazione, Evo Morales – presidente boliviano fino alle controverse elezioni del 2019, quando nonostante la rielezione è stato costretto all’esilio, tra accuse di brogli, intervento politico dei vertici delle forze armate e manifestazioni di piazza represse nel sangue – ha provato a invertire la tendenza. A maggio 2006, pochi mesi dopo essere stato eletto presidente per la prima volta, ha decretato la nazionalizzazione di gas naturale e petrolio. Nel 2008 ha poi avviato un progetto per l’industrializzazione pubblica del litio.
Mentre il mercato globale del prezioso minerale è in pieno fermento – ne vengono commercializzate circa 300mila tonnellate all’anno, una quantità 4 volte superiore a quella di inizio millennio, destinata a crescere a un ritmo ancor più elevato dato che solo sul mercato cinese nel 2025 la domanda di litio dovrebbe raggiungere le 800mila tonnellate all’anno – Evo vorrebbe produrre le batterie in patria. I risultati raggiunti finora lasciano però molto a desiderare. A Llipi, 15 chilometri dal Salar de Uyuni – un meraviglioso altopiano di sale, sotto cui si concentra circa un quinto delle riserve mondiali di litio – nel 2013 è entrata in funzione una piccola impresa a gestione statale, che ha come obiettivo la produzione di 15mila tonnellate all’anno. Oggi sono appena 250. Un quinto viene impiegato in una fabbrica pilota di batterie realizzata a Potosì, città mineraria famosa per il Cerro Rico, la montagna simbolo del lungo dissanguamento imposto dai colonizzatori europei, che oggi somiglia a un dente cariato per i crolli che hanno sepolto migliaia di indigeni mandati a estrarre argento e stagno.
I progetti di Morales si sono interrotti in seguito a quello che secondo molti analisti politici è stato un colpo di Stato. Da novembre 2019 alla guida della Bolivia c’è la senatrice di destra Jeanine Anez. Messa a capo di un governo che avrebbe dovuto amministrare per appena 90 giorni, complice la pandemia di Covid è ancora in carica dopo quasi un anno. “Ogni volta che veniva fissata una data per le nuove elezioni, il ministro della Salute annunciava un presunto picco di contagi. Quello che doveva essere un governo ad interim sembra intenzionato a rimanere al potere per l’eternità”, ha lamentato Luis Arce, ministro dell’Economia del precedente governo Morales e candidato favorito nei sondaggi con il Movimiento al Socialismo (Mas), il partito guidato da Evo.
L’esasperazione della maggioranza dei boliviani – affinché la convocazione di ottobre venisse dichiarata “irrevocabile”, i sindacati dei lavoratori e i movimenti indigeni e campesinos che sostengono il Mas hanno paralizzato la Bolivia con centinaia di blocchi stradali – è dovuta soprattutto al malgoverno dell’amministrazione Anez. Secondo Jose Miguel Vivanco, direttore per le Americhe di Human Rights Watch, “da quando è entrato in carica, questo governo ha messo sotto accusa molti sostenitori di Evo per terrorismo senza allegare alcuna prova”. Fin dal momento dell’insediamento, quando Anez si è presentata con la Bibbia in mano di fronte a un gruppo di sostenitori che davano fuoco alla Wiphala (la bandiera che rappresenta i popoli nativi della Bolivia) e non ha designato un solo ministro indigeno, la nuova amministrazione ha lavorato a smantellare le politiche in favore dei nativi promosse da Morales.
La destra boliviana vicina agli Stati Uniti – Trump ha sempre appoggiato Anez, mentre un anno fa è stata proprio l’Organizzazione degli Stati americani (Osa) a fomentare le accuse di brogli elettorali con un rapporto condannato in seguito come “scorretto ed errato” da diversi analisti, tra cui quelli del Massachusetts Institute of Technology – spinge per affidare lo sfruttamento del litio a imprese private e straniere. Come avviene in Cile e Argentina, gli altri due Paesi che formano il “triangolo dell’oro bianco”, l’area in cui si concentrano tre quarti delle riserve mondiali. Il Cile produce litio già dagli anni Ottanta e oggi, attraverso la statunitense Albemarle e la Sqm del miliardario cileno Julio Ponce Lerou, vende circa 70mila tonnellate all’anno, coprendo quasi un quarto del mercato globale. L’Argentina, che ha cominciato a fine anni Novanta e dove operano la Sales de Jujuy (91,5% di proprietà straniera: l’australiana Orocobre e la giapponese Toyota) e la Exar (91,5% di proprietà straniera: la canadese Lithium America e la cilena Sqm), vende oltre 30mila tonnellate.
Consapevole dei grandi investimenti e dell’alta tecnologia necessari all’industrializzazione del litio, un’impresa fuori portata per la sola Bolivia, Morales si è invece orientato verso la costituzione di imprese miste a controllo statale. Dopo una lunga serie di tentativi falliti, a dicembre 2018 la compagnia pubblica Yacimentos de Litio Boliviano (Ylb) aveva finalmente firmato un accordo con i tedeschi di Aci Systems, che in cambio del 49% della compagnia mista si erano impegnati a investire 1,3miliardi di dollari e installare a fianco del Salar de Uyuni degli impianti industriali di ultima generazione. A causa delle proteste del Comitato civico di Potosì, preoccupato per le forti esternalità ambientali del progetto a fronte di benefici irrisori per la popolazione locale, Morales ha dovuto però cancellare l’accordo, proprio pochi giorni prima di essere costretto all’esilio. Rimane in piedi invece l’intesa raggiunta a febbraio 2019 con il gruppo cinese Tbea: la nuova compagnia, controllata al 51% da Ylb, dovrebbe industrializzare i giacimenti di litio dei Salar di Coipasa e Pastos Grandes, garantendo investimenti per 2,3miliardi di dollari.
Qualsiasi sarà il prossimo governo boliviano, lo sfruttamento del litio dovrà comunque fare i conti con un forte impatto ambientale. Il problema principale rimane l’enorme consumo d’acqua legato alla raffinazione della salamoia estratta dal sottosuolo. Acqua che verrebbe sottratta alla produzione agricola locale, in particolare alla quinoa tipica dell’altopiano andino. Inoltre, la separazione del litio dai cloruri di sodio, potassio e magnesio che si trovano nella salamoia, comporta un massiccio utilizzo di calce – soprattutto in Bolivia, dove i depositi contengono concentrazioni più elevate di magnesio – difficile in seguito da smaltire.
Il Salar de Uyuni è la principale attrattiva turistica della Bolivia. Ogni giorno, fuoristrada carichi di visitatori all’avventura viaggiano tra lagune colorate popolate da stormi di fenicotteri rosa, vulcani alle cui pendici pascolano greggi di alpaca, geyser ustionanti e pozze termali, fino a raggiungere lo sterminato reticolo di forme esagonali disegnato da un deserto di sale che si estende su oltre 10mila chilometri quadrati di altipiano andino. Un luogo celebre per gli orizzonti sconfinati e il silenzio incantato, interrotto soltanto dalle sobrie attività dei saleros locali. A Colchani, un villaggio che sorge sul confine orientale del Salar, sono nati hotel costruiti con mattoni di sale, che ospitano corsi di yoga e meditazione. Una realtà che l’industria del litio rischia di cancellare per sempre.