Secondo Gsma Intelligence, principale associazione globale degli operatori di telefonia mobile, le persone che usano un cellulare sono ormai quasi 5,2miliardi, oltre i 2 terzi della popolazione mondiale. Il numero delle connessioni, circa 9,5miliardi di sim-card attive, ha invece da tempo superato quello degli abitanti della Terra. Una diffusione capillare e massiccia, in grado di raggiungere villaggi remoti dove non arriva neppure la corrente elettrica e di affollare le ricche case degli utenti più fanatici con decine di apparecchiature diverse. Ma quali sono i rischi per la salute umana legati all’utilizzo di questi strumenti rivoluzionari?
Secondo il rapporto pubblicato ad agosto 2019 dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss) italiano, “l’uso prolungato dei telefoni cellulari non è associato all’incremento del rischio di tumori”. Anche la Food and Drug Administration (Fda) degli Stati Uniti, in una comunicazione dello scorso febbraio, “rimane convinta che l’esposizione alle onde radio della telefonia mobile non rappresenti un rischio per la salute”. L’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro e l’Organizzazione Mondiale della Sanità classificano invece le radiofrequenze dei cellulari come “possibili cancerogeni”, una definizione che se da un lato comporta “la raccomandazione di continuare a studiare da vicino il rapporto tra queste radiazioni e i tumori”, dall’altro non suggerisce agli Stati membri di applicare alcuna precauzione.
Eppure gli studi più significativi a riguardo suggerirebbero il contrario. Nel 2018, sono state finalmente concluse due lunghe e approfondite ricerche avviate nei primi anni Duemila. Il National Toxicology Program (Ntp) del Dipartimento per la Salute degli Stati Uniti ha analizzato le emissioni dirette dei telefoni cellulari, mentre il Centro di Ricerca sul Cancro dell’Istituto Ramazzini di Bologna si è concentrato su trasmettitori e ripetitori per la telefonia mobile. Entrambi hanno individuato una “chiara correlazione” tra radiazioni dei cellulari e aumento di alcuni specifici tipi di tumore.
Promosso sotto la presidenza Clinton con un budget di quasi 30milioni di dollari, lo studio del Ntp ha sottoposto migliaia di ratti a una dose di radiazioni equivalente a quella cui è esposto nel corso della vita un utente di telefonia mobile: circa il 3% ha contratto un tumore al cervello, mentre nel 7% degli animali si è sviluppato un cancro delle cellule di Schwann, quelle che rivestono i nervi. Un risultato confermato dai ricercatori del Ramazzini di Bologna, con uno studio avviato nel 2005 su quasi 2500 ratti e pubblicato ad agosto 2018 dalla rivista scientifica Environmental Research. “L’intensità delle radiazioni che abbiamo utilizzato – ha spiegato la Dottoressa Fiorella Belpoggi, direttrice del Centro di ricerca – è pari all’esposizione ambientale più comune in Italia. I nostri risultati confermano e rafforzano quelli del Dipartimento per la Salute americano. Non può essere un caso se abbiamo osservato l’aumento dello stesso tipo di tumori, peraltro rari, a migliaia di chilometri di distanza. Riteniamo dunque che l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro debba rivedere la classificazione di queste radiofrequenze da ‘possibili’ a ‘probabili’ cancerogene. L’agente tumorale individuato appare di bassa potenza, ma vi sono esposte miliardi di persone. Un problema di salute pubblica che necessita quindi un’azione tempestiva. Dobbiamo fare in modo che la tecnologia wireless non sia il prossimo tabacco o amianto, rischi conosciuti e ignorati per decenni”.
In effetti la strategia dei colossi del settore ricorda molto quella delle multinazionali dei combustibili fossili o del tabacco: fare in modo che la comunità scientifica appaia spaccata sui rischi connessi all’utilizzo dei telefoni cellulari, così come sulle cause del cambiamento climatico o in passato sulla relazione tra fumo e tumori. Per riuscirci, occorre da un lato finanziare e promuovere la pubblicazione di studi favorevoli all’industria, dall’altro tentare di screditare o nascondere il più possibile al pubblico i risultati delle ricerche compromettenti, come confermano le critiche diffuse e la scarsa attenzione ricevuta dagli studi del Ntp e dell’Istituto Ramazzini. Il dibattito deve andare avanti all’infinito, in modo da evitare leggi e regolamenti di ostacolo alla crescita del fatturato.
Come hanno però dimostrato diverse analisi, la comunità scientifica è molto meno divisa di quanto l’industria voglia farla apparire. Henry Lai, professore di bioingegneria all’Università di Washington, ha analizzato 326 studi realizzati tra il 1990 e il 2006, che per il 44% escludono rischi per la salute umana derivanti dall’uso dei telefoni cellulari. Se però si riconsiderano gli stessi studi tenendo conto della loro natura, i risultati che emergono sono molto diversi: il 67% delle ricerche indipendenti denuncia effetti nocivi per l’uomo causati dalla telefonia mobile, mentre soltanto il 28% di quelle finanziate dalle compagnie del settore arriva alla stessa conclusione. Una tendenza confermata anche dalla rivista scientifica Environmental Health Perspectives, che ha riscontrato come gli studi finanziati dall’industria menzionano rischi per la salute 3 volte meno delle ricerche indipendenti.
Questa evidente disparità è citata anche tra le motivazioni con cui la Corte d’appello di Torino, lo scorso gennaio, ha confermato una sentenza del tribunale di Ivrea, che nel 2017 aveva condannato l’Inail a riconoscere un vitalizio di 500 euro mensili a un ex-tecnico della Telecom per un neurinoma del nervo acustico contratto a causa dell’uso “abnorme” del telefono cellulare dovuto al suo lavoro. Secondo la Corte infatti, “le conclusioni di autori indipendenti danno maggiori garanzie di attendibilità rispetto a quelle commissionate, gestite o finanziate almeno in parte da soggetti che versano in evidente conflitto d’interessi”. Nella loro relazione tecnica, i consulenti della Corte criticano anche il rapporto di agosto dell’Istituto Superiore di Sanità, che “non tiene conto dei recenti studi sperimentali sugli animali”, riferimento chiaro alle ricerche dell’Istituto Ramazzini e del National Toxicology Program statunitense. Perplessità condivise da migliaia di medici italiani, che hanno firmato una petizione rivolta all’Iss in cui chiedono una revisione del suddetto documento.
Intervista a Katiuscia Eroe, responsabile Energia di Legambiente
Qual è in Italia lo stato dell’informazione sui rischi legati all’utilizzo della telefonia cellulare e degli altri apparecchi wireless? Come ha confermato anche il Consiglio di Stato, lo scorso agosto, le avvertenze sui manuali d’istruzione dei telefoni non sono sufficienti, mentre l’informazione promossa dai ministeri competenti – Salute, Istruzione e Ambiente – è fuorviante. Obbligati da una sentenza dal Tar del Lazio di gennaio 2019 a provvedere entro 6 mesi a una campagna informativa sul corretto uso dei cellulari e sui rischi connessi per la salute, i ministeri hanno promosso uno spot televisivo intitolato “Il tuo cellulare è intelligente, usalo con intelligenza”, che parla di smaltimento dei vecchi apparecchi o di guida dell’automobile a mani libere, mentre non menziona i rischi legati alle emissioni elettromagnetiche.
Come si muove invece la politica italiana a riguardo? Con il pretesto di favorire lo sviluppo economico, continuiamo ad assistere a sconsiderati dibattiti parlamentari sulla possibilità di aumentare i limiti di esposizione alle radiofrequenze. Nella sua Agenda digitale, il governo Renzi aveva inserito la proposta di decuplicare i limiti per antenne e ripetitori, fissati dal governo Berlusconi in 6 Volt/metro. Ci hanno riprovato 5stelle e Forza Italia, in un emendamento bocciato lo scorso ottobre. A suggerire questa strada è sempre la International Commission on Non-Ionizing Radiation Protection (Icnirp), un’associazione privata composta da esperti spesso finanziati dalle compagnie del settore, che gode di grande considerazione da parte di quasi tutti i governi dei Paesi Ue. Come Legambiente crediamo invece che i limiti andrebbero abbassati a 0,4 V/m. Si dovrebbe inoltre cancellare l’articolo 14 del Decreto Sviluppo, con cui l’allora governo Monti ha spalmato la misurazione delle emissioni sulla media delle 24 ore invece che su quella dei 6 minuti nelle ore di maggior traffico telefonico, anche se queste metodologie varranno solo per le tecnologie fino al 4G.
5G
Grazie alla quinta generazione della telefonia mobile, il 5G, stiamo entrando nell’era di “Internet of Things”. Un mercato stimato in 26miliardi di dollari, che permetterà di gestire a distanza circa 60miliardi di oggetti come elettrodomestici, droni per irrigare i campi o effettuare test ambientali, sonde per il monitoraggio sismico degli edifici e tanto altro ancora. Per passare la frontiera di questo mondo rivoluzionario dobbiamo però moltiplicare prima il numero delle antenne delle radio-frequenze. Se promette prestazioni e velocità superiori alle tecnologie precedenti, il 5G viaggia infatti su onde millimetriche, che fanno più fatica rispetto a quelle di 4G, 3G e GSM ad attraversare i corpi (palazzi, alberi, nuvole e così via). Avrà quindi bisogno di un numero molto maggiore di ripetitori: “circa il triplo, cioè oltre 10mila nuove antenne soltanto a Roma” secondo Sergio Ceradini di Arpa Lazio. Il governo italiano ha già incassato 6,5miliardi di euro grazie all’asta delle frequenze, che si sono aggiudicate Tim, Vodafone, Wind Tre, Iliad e Fastweb. La realizzazione della rete 5G italiana è stata affidata ai colossi cinesi Zte, che si è occupato finora delle antenne de L’Aquila e di Prato, e Huawei, responsabile invece delle antenne di Milano, Matera e Bari. Se il mercato attende con ansia ed entusiasmo la diffusione della nuova tecnologia, mancano ancora studi scientifici consistenti sugli effetti delle onde 5G. Per alcuni esperti sarebbero meno invasive, per altri rischiano invece di avere un forte impatto sull’epidermide. Lo Scheer, il comitato scientifico della Commissione europea che si occupa dei rischi emergenti per salute e ambiente, ha classificato il 5G tra le principali fonti di possibili minacce future. Un timore condiviso da centinaia di scienziati, che hanno chiesto alle istituzioni mondiali di bloccare la diffusione del 5G fino a quando non saranno più chiari i rischi per la salute.
Legislazione italiana
La legge quadro è la 36 del 22 febbraio 2001 “sulla protezione dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici”. I limiti per le emissioni di antenne e ripetitori sono stati fissati dal DPCM 199 dell’8 luglio 2003 in 6 Volt/metro nelle aree più frequentate e in 20 Volt/metro in ogni altra area. L’articolo 14 del Decreto Sviluppo “Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese” (DL 179 del 18 ottobre 2012) ha poi imposto che la misurazione dei campi elettromagnetici suddetti avvenga su una media di 24 ore (valore arbitrario), anziché su quella dei 6 minuti nelle ore di maggior traffico telefonico (valore basato su motivazioni biologiche). Non è invece stato fissato alcun limite alle emissioni dei dispositivi mobili, come i cellulari. Al momento, le compagnie di telefonia mobile si autocertificano in base ai limiti Sar (acronimo di Specific Absorption Rate), il tasso di assorbimento specifico che esprime la misura della percentuale di energia elettromagnetica assorbita dal corpo umano quando viene esposto all’azione delle radiofrequenze. I limiti suddetti prevedono 2 Watt/Kg su 10 grammi di tessuto per la testa e 4 Watt/kg su 10 grammi di tessuto per il resto del corpo, misure che secondo la comunità scientifica equivarrebbero a un valore compreso tra 150 e 300 Volt/metro. I test per determinare i limiti Sar sono stati fatti utilizzando un manichino alto 180cm e pesante 100kg con il telefono a 2 cm dalla testa. È quindi probabile che su adolescenti e persone di corporatura più esile, gli effetti delle radiazioni siano maggiori. Inoltre la distanza tra telefono e corpo gioca un ruolo fondamentale: a esempio, un cellulare con una potenza tipica di 1 W crea un campo di circa 6 V/m a un metro di distanza e di 60 V/m a 10 cm. Secondo le ricerche di Om Gandhi, professore di Electrical and Computer Engineering della Utah University, ogni millimetro può aumentare del 10/20% la potenza delle emissioni.