Gli incendi dolosi che quest’estate hanno devastato la foresta amazzonica non inquietano soltanto gli “ambientalisti”. A settembre, in un comunicato congiunto, 230 fondi d’investimento che amministrano oltre 16miliardi di dollari – tra gli altri, Hsbc e Bnp – hanno espresso al governo brasiliano la propria “preoccupazione per l’impatto finanziario ed economico della deforestazione”. Il governo austriaco ha fatto invece sapere che non ratificherà l’accordo commerciale firmato a fine giugno da Unione europea e Mercosur (Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay), perché prevedrebbe tra l’altro una progressiva riduzione dei dazi sull’importazione di carne bovina, uno dei beni economici che più insistono sul disboscamento. L’accordo aveva già ricevuto forti critiche anche da parte di Francia, Belgio, Irlanda e Polonia – Paesi in cui l’allevamento bovino ha un forte peso commerciale e che vedono nella deforestazione una forma di concorrenza sleale – e ora rischia dunque di saltare. Ad agosto, Germania e Norvegia hanno inoltre sospeso i loro contributi annuali – rispettivamente 39 e 33milioni di euro – all’Amazon Fund, un fondo per proteggere la foresta amministrato dal governo brasiliano. Mentre le multinazionali VF (proprietaria tra gli altri dei marchi The North Face e Timberland) e H&M hanno avviato il boicottaggio del cuoio prodotto in Brasile – l’export di cuoio brasiliano vale quasi un miliardo e mezzo di dollari all’anno – interrompendo i propri acquisti.
Argomenti abbastanza solidi da “sensibilizzare” anche il governo Bolsonaro. Dopo aver utilizzato il palco di un popolare programma televisivo per dichiarare il suo “profondo amore per la foresta amazzonica”, il 29 agosto il presidente brasiliano ha ordinato una moratoria di 60 giorni sui roghi agricoli in Amazzonia – pratica comune con cui si preparano i terreni prima di avviare le nuove coltivazioni – e inviato l’esercito nella foresta per combattere le fiamme. Provvedimenti che hanno portato subito risultati concreti: a settembre – un mese in cui di solito “la stagione del fuoco” si fa più intensa – il numero di incendi rilevati dall’Istituto nazionale di ricerche spaziali (Inpe) è diminuito del 35% rispetto ad agosto (poco meno di 20mila incendi contro 33mila) e del 20% rispetto al settembre 2018 (quando erano stati 24500). Un ritmo calato ancor di più nei mesi successivi, grazie all’arrivo anticipato della stagione delle piogge.
Aver ridotto gli incendi non significa però arrestare il disboscamento: sempre secondo l’Inpe, nel 2019 è stato devastato quasi un milione di ettari di foresta, circa il doppio del 2018 (con incrementi del 90% a giugno, del 278% a luglio, del 222% ad agosto e del 96% a settembre). In tal senso, il governo Bolsonaro si è distinto per lo scarso contrasto ai gruppi criminali che gestiscono il business della deforestazione. Secondo il rapporto “Rainforest Mafias” di Human Rights Watch, il numero di sanzioni al disboscamento illegale nel 2019 è il più basso degli ultimi vent’anni, mentre su 28 omicidi legati al fenomeno soltanto in due casi si è arrivati a processo. Una tendenza che sta incoraggiando l’aumento dei crimini. Nello stato del Maranhao, a esempio, soltanto negli ultimi 2 mesi sono stati assassinati 3 indigeni Guajajara. L’8 dicembre, una macchina si è accostata e a fatto fuoco su un gruppo che camminava lungo un’autostrada locale, uccidendo Firmino e Raimundo Guajajara. A ottobre, aveva perso la vita in un’imboscata Paulinho Guajajara, uno dei “guardiani della foresta”, il gruppo di oltre cento indigeni Guajajara che si sono organizzati per proteggere la riserva di Arariboia. L’uomo aveva ricevuto ripetute minacce di morte e da mesi attendeva di entrare nel programma di protezione creato dal Governo nel 2016. Secondo quanto rivelato dal New York Times, a settembre il governatore del Maranhao avrebbe sollecitato in proposito il ministro della Giustizia, Sergio Moro, senza però ottenere risposta.
Se la diffusa impunità dei crimini legati alla deforestazione non fosse abbastanza, il presidente di Aprosoia, associazione che riunisce i produttori di soia brasiliani, ha fatto di recente sapere che Bolsonaro starebbe anche lavorando per mettere fine alla moratoria sull’acquisto di soia proveniente dalle piantagioni amazzoniche più giovani (avviate cioè su terreni disboscati dopo il 2008) mettendo così in discussione il risultato più significativo tra quelli raggiunti finora da chi si batte contro la deforestazione (la moratoria era stata finalmente approvata a Brasilia nel 2016, dopo una campagna promossa da Greenpeace e durata più di 10 anni). Il presidente brasiliano e la sua corte continuano inoltre ad alimentare una campagna diffamatoria delle organizzazioni non governative impegnate nel contrasto al disboscamento. Dopo averle accusate di essere le responsabili degli incendi di quest’estate, senza fornire alcuna prova concreta, ora Bolsonaro punta il dito contro i loro finanziatori che “danno denaro per bruciare l’Amazzonia”. In particolare, secondo il presidente brasiliano, Leonardo Di Caprio e il Wwf sarebbero colpevoli di aver sostenuto – rispettivamente con una donazione da 300mila dollari e con l’acquisto per 13mila dollari di alcune foto degli incendi – la ong Projeto Saude e Alegria, impegnata nella zona di Alter do Chao e bersaglio a novembre di perquisizioni e arresti che sembrano però del tutto infondati.
A proiettare ombre ancora più scure sul futuro della foresta amazzonica e dell’atmosfera terrestre, a fine ottobre Monica de Bolle del Peterson Institute for International Economics di Washington ha pubblicato una ricerca secondo cui il “punto d’inflessione” – indicato a febbraio dagli scienziati Thomas Lovejoy e Carlos Nobre in un valore della deforestazione compreso tra il 20 e il 25% della superficie totale, oltrepassato il quale la trasformazione dell’Amazzonia in una regione di vegetazione bassa e rada simile alla steppa sarebbe irreversibile – verrebbe raggiunto tra appena due anni, non nei 15-20 anni calcolati da Lovejoy e Nobre. Una proiezione che “significherebbe la fine del mondo”, hanno commentato i due scienziati, ma che “non può essere esclusa a causa dell’attuale sinergia negativa”. Chissà se si riferivano anche all’episodio delle statue indigene sottratte dalla chiesa di Santa Maria in Traspontina, dove erano ospitate durante il sinodo sull’Amazzonia organizzato dal Vaticano a ottobre, e gettate nel Tevere dal ponte di Castel Sant’Angelo perché accusate di “idolatria” dall’ala più conservatrice della Chiesa.