“Quest’anno la conferenza stampa che di solito apre la cerimonia di consegna del premio Nobel per la pace è stata cancellata dal programma. Il premier etiope Abiy Ahmed ha fatto sapere che non riceverà i giornalisti, né parteciperà ad altri eventi in cui gli possano essere fatte domande, come il tradizionale incontro con i bambini organizzato da Save The Children al Nobel Peace Museum. Salvo pochissime eccezioni (Obama nel 2009, ndr) non era mai accaduto negli ultimi 30 anni, da quando cioè la conferenza inaugura la cerimonia”, ha spiegato con rammarico Olav Njølstad, segretario del Comitato norvegese per il Nobel.
La tensione crescente degli ultimi mesi in Etiopia – lo scorso giugno è stato sventato un presunto colpo di Stato, mentre alla fine di ottobre una serie di scontri interetnici ha causato 80 morti e centinaia di arresti – ha molto cambiato l’atteggiamento di Abiy. Il suo look pubblico è passato dalle magliette col sorriso a pugno chiuso di Mandela, con cui nella primavera 2018 attendeva folle entusiaste per la sua nomina a primo ministro, alle uniformi militari che è stato spesso costretto a indossare di recente. Anche la libertà di espressione, di cui il nuovo premier etiope aveva fatto un cavallo di battaglia per la transizione democratica del suo Paese, sta scricchiolando sotto il peso del pragmatismo politico.
Un’evidenza che va oltre la scelta fatta per la cerimonia di premiazione del Nobel e che riguarda soprattutto quanto accade in Etiopia. È il caso, a esempio, del movimento “Addis Abeba Bale’adera Mikir Bet”, il “consiglio per la difesa dei residenti” della capitale etiope, fondato dall’attivista e giornalista Eskinder Nega, celebre per le sue battaglie in difesa della libertà di espressione, che dal 1993 gli sono costate 9 incarcerazioni e un quinto della sua vita passata in prigione. Come ha più volte denunciato anche Amnesty International, le autorità etiopi continuano a impedire le conferenze stampa convocate da Eskinder per parlare della situazione di Addis, dove gli episodi di violenza sono sempre più frequenti, o della minaccia alla democrazia rappresentata dai movimenti nazionalisti, che prosperano in quasi tutte le Regioni della Federazione etiope. A giungo, in occasione del presunto colpo di Stato originato nella Regione Ahmara, alcuni membri di Bale’adera sono stati addirittura accusati di complicità e arrestati per “terrorismo”. Un’imputazione che, al momento della sua nomina, Abiy aveva promesso non sarebbe stata mai più utilizzata in Etiopia per combattere gli oppositori politici. Rilasciati qualche mese più tardi, i membri di Bale’adera hanno denunciato che nelle carceri etiopi la tortura continua a essere una pratica comune e i prigionieri vivono in condizioni disumane, altra questione contro cui Abiy si era impegnato a battersi con decisione.
Se in Etiopia le libertà civili vivono una nuova incertezza, il celebre accordo di pace con l’Eritrea – motivazione principale tra quelle citate dal comitato norvegese per il Nobel al momento (11 ottobre) di annunciare la scelta di Abiy – è in stallo da oltre un anno. Firmato a luglio 2018, l’accordo ha garantito la libera circolazione attraverso la frontiera soltanto per pochi mesi, durante i quali oltre 30mila eritrei si sono riversati nei campi profughi del Tigrai, la Regione etiope di confine (ce ne ha raccontato la dottoressa Alganesh Fessaha dell’ong Gandhi Charity). L’Eritrea, dove il regime di Isaias Afwerki non ha minimamente allentato la morsa sulla popolazione, ha subito richiuso il confine agli emigranti, mentre gli accordi commerciali con i negoziatori etiopi non sembrano fare passi avanti. Il processo di demarcazione della frontiera tra i 2 Paesi – la questione rimasta più spinosa al termine della guerra del 1998-2000, che Abiy aveva promesso di sbloccare offrendo di riconoscere senza condizioni l’arbitrato internazionale del 2002 e restituire così all’Eritrea i territori contesi – non è neppure cominciato e le aree in questione continuano a essere sotto l’amministrazione etiope. Anche l’impegno profuso da Abiy nel promuovere la pace nel resto del Corno d’Africa – il comitato per il Nobel cita il suo intervento nella disputa sul confine marittimo tra Kenya e Somalia e nei complicati negoziati in Sudan – non ha prodotto finora risultati concreti.
Ma Abiy fatica sempre di più a mantenere l’ordine anche in patria. A causa degli scontri interetnici, quasi 3milioni di etiopi hanno dovuto abbandonare le proprie case e vivono in campi profughi da oltre un anno. In molti hanno criticato il governo per la gestione di questa crisi: per mesi gli aiuti umanitari diretti ai campi profughi sono stati bloccati dall’esercito federale, con l’intento di incoraggiare gli sfollati a far ritorno alle aree da cui erano dovuti fuggire. Una scelta che ha spesso provocato nuove violenze e privazioni. Come ha riconosciuto anche il Comitato norvegese per il Nobel, “in Etiopia i conflitti interetnici continuano a crescere. Saranno in molti quindi a pensare che il premio di quest’anno sia stato assegnato troppo presto. Crediamo però che gli sforzi fatti da Abiy meritino di essere riconosciuti e incoraggiati. La nostra speranza è che il premio possa rafforzare il suo lavoro a favore della pace e della riconciliazione”.