Dietro allo storico accordo di pace tra Etiopia ed Eritrea, che mette fine a vent’anni di guerra fredda e ripristina la libera circolazione di persone e beni tra i cugini del Corno d’Africa, si muovono gli spettri della guerra militare allo Yemen e le lotte economiche per il controllo dei flussi commerciali in Africa Orientale. “L’Eritrea ha cominciato a pagare il prezzo della pace già dal 2016, quando i leader sauditi, tra i principali sponsor dell’accordo, hanno ottenuto il porto di Assab per far decollare i loro caccia diretti a bombardare lo Yemen. Se il conflitto yemenita dovesse peggiorare – mi scrive Abraham Zere, giornalista eritreo in esilio e direttore di Pen Eritrea – i sauditi potrebbero arrivare a chiedere anche il supporto degli eserciti etiope ed eritreo”.
Dopo aver impiantato ad Assab un’importante base militare sul Mar Rosso, Arabia Saudita ed Emirati Arabi stanno lavorando anche per trasformare il porto in uno scalo commerciale alternativo a Gibuti, da cui oggi passa oltre il 90% dell’import-export etiope e su cui i cinesi esercitano un controllo sempre maggiore: oltre ad aver realizzato la nuova ferrovia che collega il porto con Addis Abeba, la Cina ha infatti impiantato a Gibuti la sua prima base militare continentale e costruito sul litorale di Doraleh un terminal petrolifero – dallo stretto di Bab-el-Mandeb, la “Porta delle lacrime”, passa circa metà dell’import cinese di petrolio e oltre il 40% del traffico marittimo globale – uno scalo container e un enorme porto multifunzionale. Infrastrutture grazie a cui le imprese cinesi si stanno sempre più affrancando dall’intermediazione che i Paesi Arabi hanno esercitato a lungo sui traffici asiatici da e verso l’Africa: il primo porto moderno di Doraleh, realizzato nel 2009 e gestito fino a qualche mese fa dalla società emiratina DP World, dopo una lunga disputa legale è stato nazionalizzato, estromettendo di fatto gli Emirati Arabi da Gibuti.
“Prima che Assab possa far concorrenza a Gibuti passeranno anni. Non solo va ammodernato il porto commerciale, ma devono essere soprattutto ripristinate le infrastrutture di collegamento con il confine etiope distrutte nel corso della guerra”, mi dice Luca Puddu, docente di Storia africana all’Università Sapienza di Roma. Se la concessione per lo sviluppo di Assab rimane appannaggio di sauditi ed emiratini, a lanciarsi per prima nella ricostruzione del collegamento stradale con l’Etiopia vuole essere invece l’Unione Europea, che punta però su un altro porto eritreo: Massawa. Neven Mimica, commissario UE per la Cooperazione allo Sviluppo, nell’incontro di febbraio ad Asmara ha promesso a Isaias Afwerki, dittatore eritreo incontrastato da quasi un trentennio, un investimento iniziale di 20milioni di euro per la realizzazione del progetto Roads to peace, con cui gli europei vogliono provare a ritagliarsi uno spazio esclusivo nei crescenti flussi commerciali che l’accordo di pace dovrebbe portare con sé. A gennaio, durante l’incontro a Roma tra il nuovo premier etiope Abiy Ahmed e quello italiano Giuseppe Conte, l’Italia si è impegnata a finanziare lo studio di fattibilità per una tratta ferroviaria che collegherebbe Addis Abeba con Massawa, passando attraverso Makallé e Asmara. Lo stesso progetto era già stato valutato dalle Ferrovie dello Stato negli anni Novanta, che lo avevano scartato per le difficoltà e gli alti costi di realizzazione del tratto finale che dall’Altopiano etiope precipita sulla costa del Mar Rosso. Allora fu valutata più conveniente l’opzione dell’ammodernamento della vecchia linea francese Addis-Gibuti, un’opera ultimata 2 anni fa dai cinesi.
Scintilla dell’accordo di pace è stata un’improvvisa offerta di Abiy, stella nascente della politica africana, che appena entrato in carica, lo scorso aprile, si è detto disposto a restituire all’Eritrea i territori rimasti contesi al termine della guerra del 1998-2000, in cui persero la vita quasi 100mila persone. Una proposta che da un lato ha causato le forti proteste delle popolazioni etiopi di confine – oltre un terzo degli Irob, a esempio, si ritroverebbero sotto il controllo dell’Eritrea – ma dall’altro ha ottenuto l’ovazione della diplomazia internazionale.
Mentre veniva negoziato l’accordo – firmato a settembre nel palazzo reale di Gedda, sotto a una gigantografia del fondatore della dinastia saudita re Abdulaziz – gli Emirati Arabi hanno messo a disposizione dell’Etiopia un prestito da 3miliardi di dollari, con cui il governo etiope ha potuto stabilizzare il birr, la valuta nazionale in caduta libera a causa dei pesanti debiti contratti negli ultimi anni (soprattutto con il governo cinese) per finanziare nuove infrastrutture. In cambio, agli emiratini sono state promesse forti partecipazioni in Ethio-telecom ed Ethiopian Airlines, gioielli dell’economia etiope che Abiy ha annunciato di voler privatizzare per far fronte all’indebitamento del proprio Paese.
Ad Afwerki invece è stata garantita l’uscita dall’isolamento internazionale in cui ha trascinato l’Eritrea, processo culminato a novembre con il ritiro dell’embargo militare e delle sanzioni economiche che le Nazioni Unite avevano imposto dal 2009. Grazie al sostegno saudita ed emiratino, oggi i diplomatici eritrei siedono addirittura nel Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, con grave imbarazzo dello stesso organismo, che solo 2 anni fa accusava il regime di Afwerki di commettere “crimini contro l’umanità” (violazioni che continuano anche dopo l’accordo di pace, secondo i rapporti di Human Rights Watch).
A dispetto delle fanfare con cui è stato salutato l’accordo, finora la popolazione eritrea non ha tratto grande sollievo dalla pace. Il servizio militare obbligatorio continua a essere la condanna a vita di ogni giovane. La Costituzione del 1997 è lettera morta, mentre le costrizioni economiche rimangono soffocanti. Subito dopo l’accordo con l’Etiopia sono stati liberati 35 religiosi di chiese cristiane “non registrate”, ma le condizioni disumane in cui sono detenuti migliaia di oppositori politici non sono cambiate. A settembre è stato arrestato Berhane Abrehe, ex-ministro delle Finanze, reo di aver chiesto pubblicamente ad Afwerki di fare un passo indietro e lasciar spazio alla democrazia. Oltre alla ripresa degli scambi commerciali – il costo dei prodotti agricoli e di altri beni come il cemento è crollato sul mercato interno grazie alle importazioni dall’Etiopia – l’unico vero effetto della riapertura del confine è stato un esodo di massa.
“Soltanto nei primi 2 mesi dopo la firma dell’accordo di pace, nei campi profughi in Tigrai, nel Nord dell’Etiopia, sono arrivati oltre 30mila eritrei, circa un terzo degli ospiti totali. Poi i controlli di frontiera sono stati ripristinati e il flusso è molto diminuito”, mi racconta la dottoressa Alganesh Fessaha, l’italo-eritrea che guida l’ong Gandhi Charity e che ha selezionato buona parte dei quasi 500 profughi arrivati in Italia da novembre 2017 grazie ai corridoi umanitari organizzati da Caritas-Migrantes e Comunità di Sant’Egidio. “Per chi arriva in Italia con i barconi – continua Alganesh – c’è il rischio paradossale che l’accordo di pace sia d’ostacolo al riconoscimento dello status di rifugiato. Il pessimo clima che si vive in Italia sul tema dell’immigrazione è infatti dovuto soprattutto alla disinformazione. A esempio, mi hanno fatto molto male le parole di Jovanotti (che ad Asmara ha girato il video della sua ultima canzone, ndr): dire che ‘l’80% dei profughi sono etiopi che si fanno passare per eritrei’ è un’offesa al nostro popolo. Se si vuol fare un’idea della realtà, dovrebbe visitare i campi dove lavoro da 20 anni. Mentre era in Eritrea non si è chiesto perché intorno a sé c’erano solo bambini, donne e anziani? Non c’è libertà nel mio Paese, altro che ‘democrazia embrionale’! Finora l’accordo di pace non ha portato serenità né lì, né in Etiopia”.
Ayneta Mihreteab, è uno degli 85 rifugiati arrivati in Italia a fine gennaio, gli ultimi dei 500 previsti dall’accordo tra la Cei e il governo (il protocollo dovrebbe venire presto rinnovato). Per lui l’accordo di pace si è trasformato in una minaccia. “Dopo essere scappato dall’Eritrea – mi racconta – ho passato un anno nel campo profughi tigrino di Mai-Aini. Poi mi sono trasferito ad Addis Abeba, dove ho vissuto per 9 anni. Lavoravo come giornalista per Assenna.com, un sito di informazione anti-governativo. Quando ho visto la delegazione di Afwerki arrivare in città mi sono sentito in grave pericolo. Così ho cancellato il mio profilo in rete e tramite alcuni amici ho chiesto l’aiuto di Alganesh per lasciare il Paese”.
“In termini di sicurezza, la situazione per i dissidenti eritrei che si sono rifugiati in Etiopia si è deteriorata dopo l’accordo di pace. Tra le decine di migliaia di persone che si sono riversate nei campi profughi del Tigrai subito dopo la demilitarizzazione del confine, si nascondevano molte spie del governo eritreo”, mi spiega Oliviero Forti, responsabile del progetto Rifugiato a casa mia di Caritas Italia. “Grazie ai corridoi umanitari – continua Forti – stiamo raggiungendo risultati incoraggianti: mentre la stragrande maggioranza degli eritrei che arrivano in Italia con i barconi abbandonano le strutture di accoglienza per dirigersi verso il Nord Europa, tra quelli inseriti nel nostro progetto il tasso di movimenti secondari è appena il 7%”. Insieme all’Università di Bologna, Unhcr e altri partner tra cui il Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, Caritas è riuscita a ottenere i primi permessi di soggiorno per motivi di studio rivolti ai rifugiati. È il progetto University Corridors for Refugees (Uni.Co.Re), che partirà nei prossimi mesi con i primi 5 studenti. “Non è però pensabile che la gestione dei flussi migratori e l’integrazione vengano delegate alla Caritas o più in generale al Terzo settore. Il governo italiano – aggiunge Forti -dovrebbe avere la lucidità per capire che solo attraverso vie legali e sicure si può affrontare il fenomeno dell’immigrazione, prevedendo a esempio quote di ingresso anche per i lavoratori che arrivano da Africa e Medio Oriente. Non è buonismo, è buon senso”.