Il taxi “Li Fan” che mi aspetta in strada, uno delle migliaia di taxi cinesi nuovi di zecca che circolano ad Addis Abeba, è il primo indizio. Diretti alla stazione, mentre attraversiamo la capitale etiope che si risveglia tra maratoneti impegnati nel primo allenamento e greggi di pecore portate al pascolo, passiamo davanti a una prova più consistente: la mastodontica sede dell’Unione Africana, costata circa 200milioni di dollari, “omaggio” degli amici cinesi al governo dell’Etiopia e all’Africa intera. Anche la nuova stazione ferroviaria, così come la nuova ala del Bole International Airport, è stata realizzata da capitali e imprese cinesi. A differenza dell’antica stazione coloniale francese, cuore pulsante della Addis Abeba di Haile Selassie, è stata costruita in estrema periferia, su una spianata di fango semideserta pensata per essere soprattutto un terminal commerciale. Così il mio taxi ha modo di attraversare anche i sobborghi della città, dove i cinesi hanno costruito interi quartieri: edilizia a basso costo, pensata per assorbire la massiccia immigrazione, in buona parte cinese, che secondo le previsioni dovrebbe raddoppiare (da 4 a 8milioni di abitanti) la popolazione di Addis entro il 2025.
Pochi altri Paesi al mondo sono stati trasformati dai cinesi come l’Etiopia. Secondo la China Africa Research Initiative della Johns Hopkins University di Washington, dal 2000 ad oggi, il governo cinese ha fornito a quello etiope oltre 12miliardi di dollari in prestiti a basso interesse per finanziare lo sviluppo delle infrastrutture locali: autostrade e ferrovie, linee elettriche e di telecomunicazione, parchi industriali pensati per trasformare l’Etiopia nel nuovo hub della manifattura globale. L’attuale politica commerciale cinese, più sofisticata e ambiziosa di quella che fino a qualche anno fa guardava all’Africa soltanto come a un’immensa miniera di materie prime, mira a conquistare i mercati emergenti africani. Già dal 2009 la Cina ha superato gli Stati Uniti diventando il primo partner commerciale del continente. Ora, grazie alle ferrovie, punta a garantire ai suoi prodotti un accesso capillare ai mercati interni. I treni sono pensati anche per offrire ai tanti imprenditori cinesi che hanno delocalizzato la produzione in Africa in cerca di manodopera a costi sempre più bassi, un canale di sbocco rapido e sicuro verso il mare. Terminale del treno che parte da Addis Abeba, a esempio, è il porto di Gibuti, dove la Cina ha appena terminato la costruzione della sua prima base militare continentale. Nei piani del governo cinese, Gibuti è destinata a diventare la Hong Kong africana, anche grazie a un’immensa area manifatturiera tax-free ormai quasi ultimata, oltre che a 3 porti commerciali e 2 aeroporti. Tutto realizzato da compagnie cinesi e finanziato con prestiti concessi da Pechino.
Il sole deve ancora sorgere ma il moderno edificio della stazione di Addis è già affollato. Nonostante siano pensate soprattutto per il trasporto merci, le ferrovie cinesi rappresentano infatti una rivoluzione epocale anche per i passeggeri, grazie alla loro sicurezza e rapidità: il nuovo treno impiega meno di 12 ore per percorrere i 750 chilometri che separano Addis da Gibuti, un viaggio che se intrapreso su gomma dura circa 2 giorni. Il costo dei biglietti inoltre è equivalente a quello degli autobus e quindi molto popolare. Alcuni passeggeri arrivano in stazione a bordo di apette Piaggio e Bajaj, c’è perfino un calesse trainato da cavalli. Presto però una linea della nuova metropolitana in funzione in città da fine 2015 – anch’essa finanziata e realizzata da cinesi, è gestita da Shenzhen Metro Group – dovrebbe arrivare fin qui.
Il controllo bagagli è affidato alle forze di sicurezza etiopi, mentre un’hostess cinese armata di fischietto si occupa di dirigere il traffico passeggeri verso la banchina del treno. A bordo, i miei compagni di viaggio sono soprattutto studenti musulmani, che approfittano della sosta universitaria di Fasika, la Pasqua cristiano ortodossa, per visitare le proprie famiglie nella parte orientale dell’Etiopia, la regione dove nel Settimo secolo l’Islam è arrivato in Africa. Il fischio che annuncia la partenza spacca il minuto. Schierato equidistante lungo la banchina, il personale sino-etiope saluta il convoglio in posa cerimoniosa, le braccia stese rigide lungo i fianchi, i petti in fuori a gonfiare le impeccabili divise bordeaux. Efficienza e disciplina, simbolo della salda collaborazione politico-commerciale tra il governo cinese e quello etiope, di cui la nuova ferrovia rappresenta il frutto più prezioso: oltre 4miliardi di dollari, finanziati in gran parte dalla Export-Import Bank of China. Realizzate da China Railway Engineering Corporation, stazioni, vagoni e locomotive sono copiate nei minimi dettagli da quelle fatte in patria prima che la Cina cominciasse a viaggiare ad alta velocità. Anche i macchinisti e parte del personale impiegato sui treni e nelle stazioni è cinese: secondo gli accordi presi dai rispettivi governi, deve occuparsi di affiancare e formare quello etiope, che tra qualche anno lo sostituirà.
Lo stesso copione va in scena anche in altri Paesi africani, dove capitali e imprese cinesi stanno rivitalizzando le antiche rotte ferroviarie coloniali.
In Kenya, la ferrovia Nairobi-Mombasa, costruita dagli inglesi e in funzione dal 1901 fino ad aprile 2017, è stata sostituita dal “Madaraka Express” – nome della festa dell’indipendenza, con cui il presidente Kenyatta ha ribattezzato anche il nuovo treno – altra opera da quasi 4milardi di dollari. Anche la nuova ferrovia kenyota è pensata soprattutto per i treni merci. In Kenya infatti le importazioni dalla Cina stanno crescendo in modo esponenziale: nel 2016 ammontavano a 5miliardi di dollari, un valore tre volte superiore a quello del 2010. A giugno 2019 dovrebbe essere completata anche la seconda tratta della ferrovia, che da Nairoibi raggiungerà Naivasha, l’area dove si concentra la floricoltura industriale kenyota. È ancora in sospeso invece il prestito cinese che consentirebbe di estendere la ferrovia fino a Malaba, città di confine con l’Uganda. Il governo cinese starebbe infatti valutando l’alternativa offerta dalla Tanzania: un progetto da 10miliardi di dollari vuole trasformare il villaggio di pescatori di Bamagoyo nel più grande porto africano e, rivitalizzando le ferrovie costruite in Tanzania negli anni Settanta dalla Cina di Mao Zedong, collegarlo con l’interno del continente (Malawi, Rwanda, Burundi e Uganda). Molti abitanti del villaggio hanno già accettato le compensazioni offerte in cambio dei loro terreni. Oggi la vecchia stazione di Dar Es Salaam arrugginisce sotto la polvere del tempo, attraversata appena da 2 treni a settimana. Ma l’ambasciatore cinese Lu Youquing ha promesso che “splenderà ancora”.
In Angola invece i cinesi hanno rinnovato l’antico “Caminho de Ferro de Benguela” costruito dai colonizzatori portoghesi: 1350 chilometri che collegano le ricche miniere di Katanga in Congo – da cui proviene la metà del cobalto estratto al mondo, oltre a rame, ferro, manganese e nichel – con il porto angolano di Lobito. La linea era stata chiusa allo scoppio della guerra civile angolana (1975-2002). Dopo i lavori di ristrutturazione cominciati nel 2005 con un accordo petrolio-per-infrastrutture, il treno è stato inaugurato in modo formale soltanto a febbraio 2015 ma continua ad avere gravi problemi di funzionamento. In Nigeria infine la linea Lagos-Kano dovrebbe essere completata a breve, mentre una ferrovia costiera che da Lagos raggiungerà Calabar attraverso il Delta del fiume Niger è in cantiere per il 2019.
Attraverso la “One Belt One Road” Initiative lanciata nel 2013 dal presidente Xi Jinping, la Cina mette a disposizione oltre 1000miliardi di dollari per finanziare nuove infrastrutture globali. Nel corso dell’ultimo vertice Cina-Africa dello scorso settembre, Xi ha promesso altri 60miliardi di dollari per progetti di sviluppo nei prossimi 3 anni. Molti commentatori parlano però di “neocolonialismo”. In effetti la cooperazione economico-finanziaria cinese sta facendo schizzare il rapporto debito/Pil di molti partner commerciali africani – a Gibuti è passato dal 50% al 85% negli ultimi 2 anni, in Kenya dal 38% nel 2012 al 57% nel 2017, in Etiopia è arrivato al 59% – mettendo a rischio la loro indipendenza. Se la crescita economica non dovesse accompagnare quella degli investimenti, potrebbe ripetersi a esempio quando avvenuto in Sri Lanka: non potendo pagare gli interessi sul proprio debito, il governo si è ritrovato a cedere ai cinesi il porto di Hambantota in leasing per 99 anni.
Per il momento però, le nuove infrastrutture stanno portando in Africa una modernità agognata dalla popolazione, che in gran parte è ancora costretta a vivere in condizioni di estrema povertà. Basta guardare fuori dal finestrino del treno Addis-Gibuti. Mentre scende dall’altopiano a maggioranza cristiana e attraversa regioni popolate soprattutto da contadini oromo e pastori nomadi afar, sullo sfondo di un deserto roccioso interrotto di rado da qualche oasi verde, comincia a scorrere l’Etiopia esclusa dallo sviluppo economico a doppia cifra degli ultimi lustri: animali pelle e ossa pascolati da ragazzini mezzi nudi coperti di polvere; minuscoli villaggi fatti di burra, le tipiche capanne afar, rappezzate coi teli di plastica degli aiuti umanitari griffati dalle organizzazioni internazionali; carretti trainati da muli che attendono spaventati dietro ai rari passaggi a livello.
Per lunghi tratti la nuova ferrovia passa accanto ai vecchi binari arrugginiti di quella realizzata dai colonizzatori francesi a cavallo tra il Diciannovesimo e il Ventesimo secolo e in funzione fino a 10 anni fa. I francesi riuscirono dove gli italiani avevano fallito militarmente (la celebre sconfitta di Adwa del 1896) ottenendo dall’imperatore Menelik II il permesso di costruire la ferrovia e il monopolio commerciale attraverso il porto di Gibuti. Da allora, il vecchio treno è stato protagonista della storia d’Etiopia. Haile Selassie, il Negus, lo utilizzò per il suo primo viaggio all’estero – a bordo, tra i regali per i governanti che lo attendevano in Europa, c’erano anche 6 leoni e 4 zebre – così come per sfuggire all’esercito di Mussolini. La ferrovia invece fu prima bersaglio degli invasori fascisti e poi degli arbegnocc, la Resistenza etiope. Anche l’esercito di Siyad Barrè la sabotò durante la guerra dell’Ogaden, alla fine degli anni Settanta. Oggi si teme che il nuovo treno possa essere oggetto di attentati terroristici. Da qualche anno infatti l’Etiopia è attraversata da violente tensioni, che hanno spinto il governo a proclamare ripetuti “stati di emergenza”. L’ultimo è stato revocato dal nuovo primo ministro Aby Ahmed subito dopo il suo insediamento (lo scorso aprile ha sostituito il dimissionario Hailemariam Desalegn). Il nuovo leader etiope è impegnato in un processo di pace e stabilizzazione, sia all’interno del Paese che nel Corno d’Africa, come testimonia lo storico accordo raggiunto la scorsa estate con l’Eritrea: dopo 2 sanguinose campagne militari e 20 anni di “guerra fredda”, il confine è stato demilitarizzato e riaperto alla libera circolazione.
A bordo del treno, il personale è composto soprattutto da giovani hostess etiopi, che alternano 4 giorni consecutivi di lavoro con 4 di riposo, per una paga mensile di 3mila birr (circa 80 euro). C’è pure una venditrice abusiva di bibite e snack: quando faccio per pagarle una bottiglia d’acqua, mi intima agitata di aspettare che non ci sia personale cinese nelle vicinanze. Il vagone, comodo e curato, è dotato anche di uno scaffale che dovrebbe ospitare giornali e riviste in libera consultazione. C’è rimasta soltanto una copia di China Daily datata ottobre 2016, quando alla presenza delle autorità venne inaugurato il treno, entrato poi in funzione solo all’inizio del 2018. Il giornale è girato su una pagina che racconta il benessere della popolazione del Tibet occupato e le campagne diffamatorie occidentali che denunciano invece repressione e malcontento. Chi saluta con troppo entusiasmo la cooperazione economica di Pechino in Africa, non dovrebbe dimenticare che sul treno dello sviluppo cinese manca il vagone della libertà d’espressione, mentre autorità, controllo e repressione occupano stabili la locomotiva.
Mentre percorriamo un tratto scavato nel terreno, poco prima della stazione di Dire Dawa, una schiera di ragazzini in piedi sulla massicciata che protegge la ferrovia saluta il passaggio del treno incrociando le braccia coi pugni chiusi sopra la testa, simbolo delle proteste che negli ultimi anni hanno infiammato l’Etiopia. Proprio nell’istante in cui mi accorgo del loro gesto, il treno comincia di colpo a sobbalzare e sembra costretto a fermarsi. Ma il disagio dura solo qualche istante. La locomotiva cinese riprende subito forza e tira dritto come niente fosse.