Quando incrociamo il sorriso invitante di Wendemu e Asgede, il sole è già alto e bollente. Fradici di sudore e con le gambe dure, discendiamo da un pezzo le aspre e remote gole in fondo a cui si nasconde il villaggio di Gunda Gunde. I 2 giovani etiopi sono agronomi dell’Università di Mekelle, inviati per l’ennesima volta tra queste montagne con il compito di raccogliere campioni di suolo, acqua e piante che verranno poi esaminati nei laboratori dell’Università. Da bravi ricercatori cercano di venire a capo di un mistero: la straordinaria qualità delle arance prodotte in questo angolo remoto dell’Agame, una regione del Tigray nord-orientale a pochi chilometri dal confine con l’Eritrea. Una zona che lo studioso Paul Henze ribattezzò “piccolo Tibet”, in omaggio alla bellezza e al mistero di queste montagne fiabesche, baluardo dell’altopiano etiope che poco più a oriente precipita nella grande depressione della Dancalia.
La spedizione cui abbiamo la fortuna di unirci è partita da Geblen, ultimo villaggio della regione raggiungibile in macchina. Gli oltre mille metri di dislivello che ci separano dalla meta finale possono essere percorsi soltanto a piedi. Un cammino che una persona ben allenata può sbrigare in 5 ore, ma che può rivelarsi interminabile per chi lo prendesse sottogamba. Quando finalmente raggiungiamo il villaggio di Gunda Gunde, il sole è già tramontato. Ad attenderci troviamo una generosità sconfinata: un pentolone ripieno d’acqua, spezie e farina di ceci – ingredienti base del tradizionale shiro – viene messo subito a bollire su un fuoco di legna, mentre un ragazzo sistema alcune stuoie lungo la veranda di casa. La volta delle stelle è talmente bella da rendere sopportabile anche la dura pietra su cui abbandoniamo i corpi esausti.
Per convincere il mio amico Paolo ad avventurarsi con me in questa valle non è bastata la promessa di una spremuta eccezionale. Siamo qui per visitare un antico monastero, che nel XV secolo fu il rifugio del movimento religioso degli Stefaniti e che ancora oggi custodisce preziose antichità. Estifanos, fondatore del movimento nel 1427, trascorse la sua giovinezza lavorando come pastore tra le montagne di quest’area. A 19 anni venne ordinato diacono, ma deluso dal malcostume diffuso tra gli altri monaci cristiano ortodossi decise presto di formare un proprio Ordine: 70 anni prima che Lutero e il Protestantesimo apparissero in Europa, diede vita a un movimento di riforma tra i cristiani. Praticava una vita austera e di condivisione, in completa indipendenza dal mondo esteriore. Trovava esagerata la venerazione per la vergine Maria, gli angeli, i santi e le altre icone religiose (ciononostante, proprio gli Stefaniti dipinsero alcuni dei più bei ritratti di Maria arrivati ai nostri giorni). Predicava grande tolleranza nei confronti delle altre religioni, in particolare dei mussulmani. Il rifiuto di inginocchiarsi di fronte all’imperatore etiope – “la prostrazione è un gesto dovuto soltanto a Dio”, sosteneva Estifanos – gli costò prigione e torture. Morì in carcere nel 1444 e il suo corpo venne poi bruciato in pubblica piazza. Anche i monasteri degli Stefaniti subirono le fiamme del clero ortodosso, mentre i discepoli che gli rimasero fedeli vennero imprigionati e uccisi. La persecuzione del movimento continuò per tutto il XVI secolo, fino a quando l’Ordine non venne riassorbito con violenza dalla Chiesa Ortodossa etiope. Ma le idee di Estifanos sopravvissero, garantendo agli Stefaniti un posto nella storia religiosa dell’Etiopia. Gunda Gunde divenne un luogo mitico, custode della memoria del movimento. Ancora oggi all’interno del monastero sono conservati oltre 200 manoscritti – soprattutto Vangeli, storie bibliche e vite dei martiri Stefaniti – oltre a magnifiche miniature e dipinti che risalgono a prima del XVI secolo. Li ha fotografati Ewa Balicka dell’Università di Uppsala, nel corso di una spedizione organizzata qui dall’Hill Museum and Manuscript Library (Hmml) oltre dieci anni fa. Antonio Mordini invece nella sua visita del 1953 aveva contato ben 800 documenti.
A differenza delle altre chiese rupestri del Tigray, scavate nella roccia tra i picchi delle montagne, il monastero degli Stefaniti si trova in fondo a una serie di gole. Per raggiungerlo dal villaggio di Gunda Gunde occorre seguire il letto in secca del torrente che durante la stagione delle piogge alimenta le arance e le altre coltivazioni locali. Prima d’incamminarsi è però necessario il nullaosta degli abitanti del villaggio. A sorpresa, le stesse persone che ci hanno sfamato e ospitato la notte precedente, ora non sembrano disposte ad accordarci il permesso di proseguire. Mentre ci disperiamo all’idea di avere fatto tanta strada senza poter nemmeno vedere il profilo della chiesa, s’avvicina un uomo avvolto in un mantello. Tra il copricapo piatto e la fitta barba bianca spuntano due occhi brillanti e affilati: sono quelli di Abba Lemlem, leader della congregazione che ancora oggi vive, lavora e prega nel monastero di Gunda Gunde. Occhi che dopo averci interrogato lo convincono ad accompagnarci a destinazione.
L’emozione e la stanchezza, unite al delizioso tej, un liquore di miele tipico dell’altopiano etiope, che ci viene servito senza pausa in piccole otri di vetro soffiato, mi spingono in una sorta di trance mistica. Dimentico i manoscritti, i dipinti e le miniature. Non posso far altro che rimanere sospeso a osservare con rispetto lo scorrere degli eventi. Alcuni monaci ci fanno accomodare all’ombra di una tettoia di sterpi intrecciati. Ad accompagnare il tej, ci viene offerta una cesta di paglia ripiena di besso, un impasto di farina d’orzo e spezie che va lanciato nella bocca. Seduto al mio fianco c’è un vecchio monaco sdentato, che non smette di ridere davanti ai miei tentativi maldestri di mangiare il besso. Paolo intanto studia i gesti di un altro monaco, che sta tostando parte del caffè portato con noi come omaggio alla congregazione. Di colpo Abba Lemlem c’invita ad alzarci: un capretto è stato sacrificato per festeggiare e il resto della congregazione c’attende per dare inizio al pasto. La testa dell’animale è conficcata per le corna tra le pietre di una parete. Dal collo cola sangue fresco. Il tej, come il sangue del capretto, non smette di scorrere. Il monaco che taglia la carne bollita continua a offrirci i bocconi migliori. Con lo sguardo cerco gli occhi di Abba Lemlem, come fossero l’unica bussola rimasta a disposizione. Lui però mi guarda solo quando non lo faccio io. Prima di perdere i sensi ho un ultimo pensiero, quasi un peccato di presunzione: il segreto delle arance di Gunda Gunde forse è proprio qui, nella atmosfera mistica che mi circonda.
All’Università di Mekelle, capoluogo del Tigray, gli esperimenti per trapiantare le straordinarie arance di Gunda Gunde continuano a rivelarsi un fallimento. “Sono anni che lavoriamo per estendere la produzione di questa qualità – racconta Asgede, uno dei ricercatori che cura il progetto – ma in nessun altra zona d’Etiopia le arance crescono così grandi, dolci e succose. Continuiamo a studiare il fenomeno, ma ancora non siamo venuti a capo di questo mistero”.
Come tutti gli altri prodotti di Gunda Gunde (banane, papaie, pomodori) destinati al mercato di Adigrat – la città più vicina – le arance devono risalire la valle a dorso d’asino fino a Geblen. Da lì proseguono su piccoli camioncini stracarichi, che avanzano traballanti tra le buche e la polvere delle sterrate locali. Nel succo e nella polpa di questi frutti è raccolto un manuale di agronomia: il terreno arabile viene conservato con cura e ricavato anche dalle montagne, l’acqua è razionata con un sistema di canalizzazione, i campi per le coltivazioni sono tutti terrazzati e recintati con barriere di cactus che li proteggono dagli animali. A osservarle con attenzione, le vite di questi contadini, costretti a razionare il cibo con cura perché sia sufficiente a dare sostento anche nelle ultime settimane prima del nuovo raccolto o a camminate stoiche per poter raggiungere scuole e ospedali pubblici, somigliano a quelle dei santi Stefaniti raccolte nei manoscritti custoditi nel monastero di Gunda Gunde.