È una gelida mattina di gennaio, e la città santa è avvolta in un denso strato di nebbia in cui galleggia uno stormo fitto di corvi neri. Dalla terrazza del tempio di Sankat Mochan, a Varanasi, osserviamo lo spettacolo straordinario che ogni giorno va in scena sui ghat in riva al Gange. I roghi funebri, a poche centinaia di metri, spandono nell’aria umida l’odore dolciastro dei corpi cremati. Le ceneri dei defunti vengono poi sparse nell’acqua del fiume, così che le anime possano affrancarsi dal ciclo delle reincarnazioni. Sotto a noi invece, migliaia di persone sono impegnate a rendere grazia alla vita con le loro abluzioni mattutine. Nonostante i livelli d’inquinamento di questo tratto del fiume siano spaventosi, per ricevere la benedizione quotidiana di Mother Ganga gli hindu continuano a immergersi e a praticare l’aacham, l’inalazione di un sorso simbolico d’acqua.
L’uomo che mi sta accanto s’accorge del mio sguardo incredulo, e una risatina gli scappa fuori dalla folta barba bianca. “Così vieni dalla sorgente del fiume sacro – mi incalza riconquistando i miei occhi – e vorresti che ti raccontassi come ho fermato le compagnie idroelettriche.. Beh, ti dirò una cosa soltanto: non ho alcuna fiducia nelle promesse del governo. Ci hanno detto che i progetti sono bloccati per sempre, ma so benissimo che potrebbero riprendere in ogni momento. Il problema restano gli interessi finanziari degli individui coinvolti. Dagli uomini d’affari ai tecnici, dagli ufficiali governativi fino agli abitanti dei villaggi locali, tutti pensano solo al proprio tornaconto personale. In nome di ciò che chiamano ‘sviluppo’, sono pronti a vendere la propria Madre”.
Guru Das Agrawal, professore 79enne dell’Istituto di tecnologia di Kanpur, oltre a essere tra gli scienziati più eminenti dell’India, è anche un’importante personalità religiosa. Nella primavera 2009 è rimasto 38 giorni senza mangiare, in segno di protesta contro la costruzione degli impianti idroelettrici di Loharinag-Pala e Bhaironghati. I 2 impianti sarebbero dovuti sorgere a pochi chilometri dal ghiacciaio di Gaumukh, “la bocca della mucca”, sorgente del fiume sacro. “L’acqua che scorre nel Gange – ha spiegato Agrawal prima di cominciare il suo sciopero – non è acqua qualunque per gli hindu. Secondo la fede, la tradizione, la cultura e i sentimenti del nostro popolo, quest’acqua rappresenta la vita e la morte.” Il gesto dello scienziato, unito alle proteste continue degli ambientalisti e della popolazione locale, ha costretto il governo indiano a bloccare i 2 progetti, e a decretare che i primi 135 chilometri del corso del Bhagirathi, ramo principale del Gange, vengano lasciati scorrere liberi da dighe, tunnel o altri impianti.
Oggi però questa conquista, in grado di riaccendere la speranza tra chi da anni in India si batte contro la potente lobby dell’energia idroelettrica, rischia di essere rimessa in discussione. A farlo è lo studio d’impatto ambientale realizzato dalla Alternate Hydro Energy Centre (Ahec), un’unità dell’Istituto di tecnologia di Roorki incaricata dal Ministero dell’ambiente indiano di valutare gli oltre 130 progetti idroelettrici (realizzati, in costruzione o proposti) che insistono sui bacini del Bhagirathi e dell’Alaknanda, altro importante ramo del Gange. Secondo quanto riportato dalla Ahec, i progetti di Loharinag-Pala e Bhaironghati risultano ancora in costruzione, e – operazione singolare per uno studio d’impatto ambientale! – se ne incoraggia addirittura la ripresa.
Tra le 301 pubblicazioni realizzate dalla Ahec negli ultimi 10 anni, se ne possono contare appena 8 che abbiano per oggetto un fiume. In un solo caso poi la valutazione riguardava un impianto idroelettrico. La scelta di affidargli uno studio così importante, fatta a settembre dal governo senza alcuna gara pubblica “per motivi di urgenza”, ha quindi sollevato una bufera di critiche. Oltre ad affermare che “l’impatto socio-economico di tutti i progetti considerati è da ritenersi positivo”, omettendo ogni riferimento ai danni all’ambiente e alle popolazioni locali, il rapporto dipinge gli impianti idroelettrici come campioni d’efficienza energetica.
Secondo il South Asia Network on Dams, Rivers and People (www.sandrp.it), il 90% degli impianti idroelettrici operativi in India non produce i livelli d’energia promessi in fase di realizzazione. Negli ultimi 20 anni, la dimensione del settore idroelettrico indiano è cresciuta a un ritmo medio del 4,35% all’anno. Nello stesso periodo però il tasso di rendimento è crollato di un quarto. Gli impianti rimangono spesso fermi sia nella stagione monsonica, per l’accumulo di sedimenti, sia in quella secca, a causa dello scarso flusso d’acqua. Le grandi distanze che intercorrono tra i centri di produzione sull’Himalaya e i luoghi di consumo – le megalopoli della grande pianura indiana – fanno si che gran parte dell’energia prodotta si disperda lungo le linee di trasmissione. Nel caso dei bacini del Bhagirathi e dell’Alaknanda la situazione non è differente: neppure nelle stagioni più propizie i quattro impianti principali della regione (Theri, Vishnuprayag, Maneri-Bhali I e II) arrivano a produrre i livelli previsti. L’energia elettrica prodotta da Maneri-Bhali II è in media di un terzo inferiore a quanto sperato, mentre Maneri-Bhali I non arriva alla metà del potenziale promesso.
Oltre che per la scarsa efficienza, gli impianti idroelettrici si distinguono per l’impatto devastante che hanno sull’ecosistema dell’Himalaya. La diga di Theri, operativa dal 2005, è il gigante della valle del Bhagirathi. Un impianto da 2000MW, quinto al mondo per dimensioni. La sua costruzione ha portato all’allagamento di un’area molto ampia della valle del fiume, e al collasso di 42 chilometri quadrati di terreno. Secondo il rapporto del Wwf World’s Top Ten Rivers at Risk, “la diga ha sommerso 40 villaggi, causando lo sfollamento di oltre 100mila persone”. Risalendo il tratto che dall’impianto arriva fino al villaggio di Chinnyalisaur, il fiume sacro ha le sembianze di un lago torbido e immoto. Lungo il percorso della vecchia strada per Rishikesh, si possono vedere gruppi d’operai – spesso immigrati nepalesi, gli stessi impiegati dallo Stato nella costruzione delle strade – che s’aggirano per villaggi semisommersi e abbandonati. Armati di martelli, seghe e carriole, sono intenti a recuperare quanto possibile: mattoni, vecchie strutture in ferro battuto, una porta di legno non ancora fradicia. Oggi la strada, unico collegamento della regione con il resto dell’India, è stata ricostruita più a ridosso delle montagne, e per arrivare a Rishikesh gli abitanti della zona devono farsi 60 chilometri in più.
Nella direzione opposta, risalendo verso la sorgente, il fiume pian piano si trasforma in un infimo rigagnolo che scola su un letto di pietre secche e polvere. L’acqua del Bhagirathi sparisce dalla vista, risucchiata nei tunnel che alimentano le turbine degli impianti di Maneri-Bhali I e II. Per costruire queste gallerie è servita una lunga serie d’esplosioni sotterranee, che ha provocato enormi danni collaterali in superficie: villaggi terremotati, fonti d’acque inghiottite dalle viscere della terra, coltivazioni e pascoli persi per sempre. Mentre mostrano le ampie crepe disegnate sui muri delle loro case, gli abitanti di Salong raccontano che “i letti saltavano a ogni esplosione”. Spesso poi gli scarti dei materiali usati nella costruzione degli impianti sono finiti dritti nel fiume. Nei pressi di Shinari si è creata una vera e propria discarica, e una gran quantità di cemento si è riversata nei canali d’irrigazione e nelle coltivazioni di riso del villaggio.
Di fronte alla devastazione ambientale ed economica della regione, i responsabili fanno spallucce. Con la complicità di chi dovrebbe provvedere al monitoraggio dei progetti, le compagnie idroelettriche si dichiarano estranee alla sorte di case, fonti d’acqua, campi e pascoli. Quando le responsabilità sono troppo evidenti, come nel caso dei villaggi allagati, il danno arrecato agli abitanti viene compensato con pochi spicci: 400 rupie per nail (meno di 7 euro per ogni 200 metri quadrati di terra sommersa), ma anche molto meno nel caso di terreni isolati. Lo Stato – proprietario della Tehri Hydro Development Corporation (Thdc) – ha provveduto a sistemare in un’altra area parte dei cittadini sfollati dalla diga di Theri: gli abitanti di 22 villaggi su 40 sono stati riallocati in provincia di Dehra Dun, nella pianura di Jali Grent. Per gli altri, rimasti isolati sulle pendici dei monti, la vita è diventata un inferno: non possono avvicinarsi alla riva del fiume per il pericolo costante di nuove frane, e la prima fonte d’acqua potabile si trova a 6 ore di cammino.
“All’inizio – racconta Priyadarshini Patel, tra i primi attivisti a battersi contro i progetti idroelettrici e direttrice dell’ashram Arya Vihar in riva al Bhagirathi – la popolazione locale non appoggiava le nostre manifestazioni di protesta. Il governo prometteva sviluppo, benessere e lavoro per tutti. Solo più tardi la gente si è resa conto di cosa stava succedendo davvero”. Nei discorsi del primo ministro BC Kanduri, il giovane Stato dell’Uttarakhand era destinato a trasformarsi nell’Urja Pradesh, lo “Stato dell’energia”. I politici locali continuavano ad assicurare che il 70% degli impieghi generati dagli impianti idroelettrici sarebbero stati riservati alla popolazione locale. In una regione affetta da una sottoccupazione drammatica, le false promesse della politica hanno avuto gioco facile. Oggi dei 30mila abitanti della valle appena 200 hanno ottenuto un impiego nelle compagnie idroelettriche. Soltanto in 2 casi si tratta di ingegneri, mentre per il resto i pochi fortunati lavorano come autisti e operai. Occupazioni temporanee, che vengono meno a impianti ultimati. La terra invece, quella che fino a oggi aveva garantito la sopravvivenza, è perduta per sempre.
“Quando le proteste sono diventate di massa – continua Priya – la polizia le ha subito represse con violenza. Tante persone sono finite in galera. Ricordo 30 ragazzi del villaggio di Dikali, venuti a bloccare il traffico sul ponte di Daharasu per reclamare il loro diritto all’impiego e alle compensazioni per i danni subiti dal proprio villaggio. I militari li hanno presi a colpi di lathi (il manganello indiano, ndr) e poi caricati tutti sulle camionette. Oggi la popolazione di ogni valle è in rivolta. Quanto deve durare ancora tutto ciò? L’esperienza ha insegnato che i progetti per la produzione d’energia idroelettrica sull’Himalaya non sono ne ‘verdi’ ne efficienti. Il sistema va avanti solo grazie alla corruzione dilagante che lo alimenta, e le entrate bastano appena a pagare i salari della burocrazia. Se gli studi d’impatto ambientale e il loro monitoraggio fossero affidati a organizzazioni indipendenti, le esternalità sociali basterebbero a scoraggiare ogni nuovo progetto”.
Al contrario la lobby dell’idroelettrica vive un momento d’oro. Per alimentare il proprio alto tasso di crescita economica – attestato su un 8-9% annuo – il Gigante economico indiano punta con decisione su questa fonte “pulita”, che nei piani del governo dovrebbe arrivare a coprire il 40% del fabbisogno energetico interno. Accanto alle compagnie pubbliche, negli ultimi anni sono entrati nel settore molti privati. Anche le grandi banche non si stanno lasciando scappare l’opportunità. In primavera l’Himachal Pradesh, lo Stato confinante con l’Uttarakhand, ha ottenuto dall’Asian development bank (Adb) un finanziamento di 800milioni di dollari per lo sviluppo del settore idroelettrico, e altri 95milioni per iniziative di promozione del turismo. La Banca mondiale, che per qualche anno si era tenuta fuori dal business delle dighe, è tornata a finanziare molti progetti.
Secondo l’Himachal Pradesh Clean Energy Development Investiment Program, il governo punta a passare dai circa 10milaMW di potenza attuali a oltre 21milaMW entro il 2015. Le manifestazioni di protesta degli ambientalisti e della popolazione locale sono ormai quotidiane. A Luhri, a esempio, si lotta contro il progetto da 775MW della Satluj Jal Vidyut Nigam (Sjvn), che comporterebbe la perdita di quasi 300 ettari di foresta. Oltre la metà – 27 villaggi compresi – verrebbe sommersa dall’acqua. La compagnia, una join venture tra governo indiano e governo statale, è da sempre tra le protagoniste dell’idroelettrica in Himachal, dove tra gli altri ha costruito il gigante da 1500MW di Nathpa. Oltre alla Banca Mondiale, la Sjvn è finanziata da un consorzio di banche europee e da una lunga serie d’investitori privati tra cui Impregilo, Siemens, Kaerner, Abb, Suler Escher Wyss, Bhel. Accanto a questo colosso, che opera anche in Nepal e Bhutan, si stanno facendo spazio nuovi protagonisti. È il caso del rampante Jaypee group, che ha appena ultimato il più grande impianto idroelettricoprivato dell’India, la Karcham Wangtoo (1000MW), finita più volte davanti alla Corte Suprema per le proteste locali.
Quando, subito dopo l’indipendenza dagli inglesi, si cominciarono a costruire le prime dighe – la Bhakhra sul fiume Satluj, la Sardar Sarovar sul Narmada – il Primo ministro indiano Jawaharlal Nehru le immaginava come “i templi dell’India moderna”. Nel suo disegno avrebbero portato acqua alle famiglie a ai campi assetati, energia all’industrializzazione del paese. Da allora, secondo la Sandrp, sono stati costruiti oltre 5mila impianti, che hanno causato lo sfollamento di una popolazione stimata tra 25 e 60milioni di persone.
Oggi il Primo ministro è Manmohan Singh – l’uomo voluto dal Fondo monetario internazionale, prima come ministro delle finanze, poi come guida dell’India moderna – il cui unico interesse sembra essere l’arricchimento delle grandi corporation. Così, mentre in Himachal e Uttarakhand la popolazione è sul piede di guerra, la lobby dell’idroelettrica ha già individuato la prossima frontiera: il Nordest del paese, dove vive buona parte delle tribù indigene rimaste in India. Secondo un rapporto della Banca mondiale, data la bassa densità di popolazione della regione si tratterebbe del “luogo migliore al mondo da un punto di vista ambientale e sociale per la costruzione di progetti idroelettrici”. Il governo indiano, che prevede la realizzazione di 135 grandi impianti nel solo Arunachal Pradesh, ha anche un interesse geopolitico nell’operazione. La regione infatti è ancora oggetto di un contenzioso territoriale con la Cina.
Dighe indiane ovunque
Le compagnie idroelettriche indiane sono sempre più attive anche oltrefrontiera. Gli investimenti si concentrano in Paesi dove non esiste ancora una società civile combattiva, ne un quadro legale in grado di regolamentare i danni socio-ambientali derivanti dai loro progetti. Oltre che nel resto dell’Himalaya, dove sono previsti progetti per 150milaMW complessivi – tra gli altri, la Sjvn si sta occupando dell’impianto ArunIII (900MW) in Nepal e la Thdc dei mostri Punatsangchhu I (1095MW) e II (1000MW) in Bhutan -, oggi fanno affari d’oro anche in Afghanistan, Bangladesh, Birmania, Congo, Etiopia, Ghana, Indonesia, Iraq, Malesia, Ruanda, Sri Lanka, Tagikistan, Uganda e Vietnam. I risultati su popolazione e ambiente locali sono gli stessi provocati in patria. In Birmania, a esempio, la diga Tamanthi sommergerà presto 38 chilometri quadrati di terreno provocando lo sfollamento di 30mila persone; mentre l’impianto di West Seti in Nepal, che esporterà tutta l’energia prodotta in India, sommergerà 22 km e 1500 famiglie.
L’inquinamento non ferma i fedeli
La leggenda racconta che Mother Ganga discese dal cielo grazie alla compassione di Brahma – il Creatore nella Trinità induista – per l’asceta Bhagiratha, che da mesi si era ritirato sull’Himalaya nella più assoluta austerità invocando la purificazione della propria gente. Anche Shiva contribuì al miracolo, acconsentendo ad accogliere il fiume lungo i suoi locks (trecce) così da evitare che l’impeto della discesa distruggesse la terra. Si suppone che tutte le sacre scritture hindu – Veda, Upanishad, Purana – siano state composte alla sorgente del Gange. Proprio secondo i Purana, un bagno nel fiume sacro è in grado di purificare dai peccati. Per questo un miliardo di fedeli hindu pratica ogni mattina le proprie abluzioni nelle acque di Mother Ganga.
Anche la comunità scientifica continua a indagare le straordinarie proprietà auto purificatrici di questo fiume. Conservata in un recipiente aperto, anche per anni, l’acqua del Gange non va in putrefazione. Le ragioni per cui i batteri non riescono ad attecchire non sono ancora state chiarite del tutto. Secondo il Professor Devendra Swaroop Bhargava, “l’abilità di assimilare materiale organico a una velocità 25 volte superiore a quella di qualsiasi altro fiume del mondo, dipende in parte dalla forte presenza nell’acqua del Gange di alcuni polimeri. Quest’ultimi sono un coagulante eccellente, in grado di rimuovere fino al 60% del materiale organico nel giro di una sola ora. Inoltre lungo l’intero letto del Gange è presente un materiale misterioso, in grado di creare un ambiente molto ostile alla sopravvivenza di batteri patogeni”.
Ciononostante i livelli d’inquinamento di alcuni tratti del fiume sacro sono anch’essi straordinari. A Varanasi, a esempio, la acque fognarie dell’intera città finiscono nel fiume senza subire alcun pretrattamento, così il livello di batteri coliformi è tra i più elevati del pianeta. Secondo la credenza hindu però l’acqua del Gange e l’inquinamento del fiume – gandaji, nel dialetto locale – vanno considerate entità separate, non in grado di mischiarsi come la logica scientifica suggerirebbe. Per questo molti fedeli continuano ad immergersi anche in luoghi dove l’acqua è tossica, come lungo la riva della città santa.
Dalla nascita alla morte, gli hindu vivono in simbiosi col Gange, che oltre a fornire la benedizione quotidiana, disseta le coltivazioni di una regione vastissima, costretta altrimenti a contare sulle sole precipitazioni monsoniche. Le dighe, trattenendo a monte i sedimenti – gli stessi che costringono a bloccare gli impianti idroelettrici – impoveriscono l’apporto di nutrienti alle terre della vasta pianura indiana. Ma non lasciar scorre libera Mother Ganga è soprattutto un oltraggio alla cultura fiorita in riva al fiume e in grado di resistere a secoli di colonizzazioni. Una cultura che ancora oggi rende l’India il “Paese della spiritualità”, come dimostrano i pellegrini che ogni giorno si riuniscono ad Haridwar, dove il fiume abbandona l’Himalaya e si riversa nella Grande Pianura, per recitare il ganga aarti, la cerimonia di adorazione del sacro fiume.